domenica 30 novembre 2014

Uomo e donna: radicale alterità o multiforme pluralità? di Chiara Saraceno

Ho letto con un certo sgomento quanto Recalcati ha scritto suRepubblica per condannare la violenza che troppi uomini praticano contro le donne.

Equiparandola ad una forma di razzismo intesa come negazione della libertà dell’Altro,

Recalcati scrive: 
“La donna, infatti, è una delle incarnazioni più forti, anarchiche, erratiche, impossibile da misurare e da governare, di questa libertà. Il suo stesso sesso non è visibile, sfugge alla rappresentazione, è nascosto, si sottrae alla presa dell’evidenza. La loro identità, difficile da decifrare, non risponde mai a quella della divisa fallica degli uomini. Proprio per questo le donne possono essere l’oggetto di una violenza inaudita. Possono essere aggredite, offese, maltrattate, uccise proprio perché sfuggono ad ogni tentativo di possesso, perché coincidono con la libertà”.

Che cosa mi sgomenta e disturba in queste affermazioni? 
La definizione unidirezionale “della donna” (assoluto singolare) come Altro. Come se anche l’uomo maschio non fosse Altro per la donna, ovvero come se l’essere umano non fosse costituito da questo dualismo, simmetrico e insieme innervato da una pluralità di differenze che rompono quei due singolari assoluti e quella maiuscola. Perché mai l’identità delle donne dovrebbe essere più difficile da decifrare di quella degli uomini? Solo un punto di vista che pone, per quanto criticamente, il maschile insieme come assoluto singolare e come metro di giudizio, può considerare le donne l’Altro assoluto, misterioso, inconoscibile (perfino alle donne stesse), irrapresentabile.
Ha ragione Recalcati a dire che non basta l’educazione sessuale intesa come informazione sugli apparati genitali di uomini e donne, a far maturare rapporti tra uomini e donne meno esposti al rischio di violenza e sopraffazione. Che occorre anche un’educazione sentimentale, che favorisca il riconoscimento dell’irriducibilità dell’altro/a (con la minuscola, però) a sé e della sua libertà. Ci mancherebbe.
Ma non è utile neppure un’ipostatizzazione misterica della donna come Altro dall’uomo (oltretutto senza reciprocità).
Quando non suscita in uomini intellettualmente sofisticati riflessioni suggestive come quelle di Recalcati, una simile ipostatizzazione rischia di provocare negli uomini non solo o tanto paura, ma disprezzo, senso di superiorità, svalorizzazione delle donne e di quanto fanno o aspirano a fare, autorizzazione al desiderio di possesso, violazione della libertà, fino alla violenza. Dall’Altra irridicibilmente diversa, cristallizzata nella sua differenza, e perciò in conoscibile, all’altra inferiore e perciò utilizzabile a piacere, il passo è molto breve.
Se si vuole operare contro la violenza forse è più opportuno togliere maiuscole, introdurre il plurale, e ragionare sul fatto che l’alterità è condizione normale nelle relazioni tra esseri umani, una condizione che mobilita sia l’uguaglianza nell’aspettativa reciproca di riconoscimento e rispetto, sia la conoscenza, per quanto sempre imperfetta, parziale, in progress – proprio come le identità.


sabato 29 novembre 2014

Stereotipi: essere uomini tra luoghi comuni e tanta realtà di Mario De Maglie

Essere uomini e portarsi dietro ogni luogo comune sulle intenzioni, sui modi di essere, di pensare e di agire, su dove si vuole andare a parare quando si intavola una discussione con una donna, su quale sia la considerazione generale che si ha nei confronti dell’altro sesso, è faticoso.
Essere uomini, in questo modo e in questo mondo, è cosa ingrata. Perché tutti questi luoghi comuni? Perché esistono e sono ben presenti in ogni uomo. A livello individuale, possono forse trovarsi degli argini o una dimensione più contenitiva, a livello di gruppo, di solito, invece bisogna adeguarsi e seguire le linee comuni che vanno in esternazioni verbali ed agiti poco rispettosi, quando non invadenti o addirittura aggressivi. Attenzione, non voglio semplificare, cercherò di spiegarmi al meglio. Non voglio dire che per tutti gli uomini sia così, ma che per tutti valgano delle tendenze su cui poi ognuno ha sì libertà di scelta e di opposizione, ma relativa.
In circostanze frequenti, tra uomini, se qualcuno fa una battuta sessista, si assiste ad una cooperazione per sostenerlo, se non per entrarvi in competizione con battute o espressioni di tenore analogo. Il gruppo di maschi sperimenta una sorta di temporanea unione di intenti in grado di abbattere qualsiasi differenza precedente. È una gara a chi ce l’ha più lungo senza temere il confronto. Tacere significa far passare che non si è abbastanza uomini. Non sia mai!
Ogni uomo sa di cosa sto parlando, senza voler generalizzare, in realtà, possiamo tranquillamente permettercelo. Anche per uscire fuori da certe tendenze bisogna prima consapevolizzarle e prendere atto che ci si vive immersi. Il luogo comune siamo anche noi.
In passato gli stereotipi di genere erano rigide regole della società che non venivano messe in discussione perché funzionali all’ordine costituito che doveva essere preservato, per farlo gli uomini utilizzavano la forza, la costrizione e l’assuefazione. La società ci credeva davvero, non si pensava in torto. Lo stereotipo non veniva certo classificato come tale, era l’espressione dell’andamento naturale delle cose.
Oggi possiamo permetterci di evidenziare e criticare tutto questo, grazie ai movimenti delle donne, ma non ancora di risolverlo. Molte cose sono cambiate e stanno cambiando, ma è anche un momento di stasi prodotto, a mio avviso, dal fatto che le donne hanno ormai fatto il possibile per indicare le strade percorribili, ora sta agli uomini e, sebbene fasce di popolazione maschile si muovano in direzioni adeguate, esse sono nettamente minoritarie.
Non è un atto di accusa nei confronti del genere maschile, un tale atteggiamento altrimenti non farebbe altro che frenare un cambiamento che già di per sé viaggia a velocità ridotta. Chiunque si senta accusato si difende ed invece di stare sul contenuto dell’accusa è più facile attacchi o si sottragga al confronto. La mia quindi è solo una constatazione dalla quale partire. Sono stato abbastanza uomo e ho frequentato abbastanza uomini per parlare con cognizione di causa, all’incirca per 36 anni. Ogni uomo è legato con le catene agli stereotipi sessisti, c’è chi ha una catena più lunga e chi una più corta, ma l’uomo veramente libero da stereotipi non può essere un singolo individuo. Egli può realmente esserlo solo a livello collettivo.
L’individuo non può che rappresentare la comunità in cui vive, se ne può distanziare certo, ma la rappresenta perché ne è frutto, anche il suo dissenso nasce comunque dal suo particolare modo di stare nella collettività. L’uomo emancipato, in una comunità portatrice di stereotipi, è solo uno schiavo ben agghindato per il giorno di festa, ma che negli altri giorni rivela tutta la sua sottomissione. L’uomo libero vive in una collettività libera.
Non mi sento esente da stereotipi sessisti, proprio in virtù del fatto che la realtà sociale ne è piena e ci faccio i conti con parenti, amici, colleghi di lavoro, sconosciuti, fino ad arrivare a farli con me stesso davanti allo specchio. Con gli altri uomini, in presenza di sessismo conclamato o strisciante, a volte posso intervenire, a volte non mi è possibile, a volte non saprei come spiegarmi, a volte mi sembra uno spreco di energie. Sempre di più però ne sento il bisogno.
Faccio azioni di sensibilizzazione, ma queste sembrano per lo più mirate a uomini già sensibilizzati, con più fatica raggiungo tutti gli altri che rimangono la maggior parte. Numerose volte gli uomini che mi circondano fanno battute sessiste senza che gli passi minimamente per la testa non solo la svalutazione della donna, ma anche la loro che ne è conseguenza diretta. Spesso farlo notare suscita sguardi un po’ sorpresi ,un po’ ridanciani, un po’ rabbiosi come a dire: “Ma chi sei tu? Non sei dei nostri?Cosa vuoi?”.

Arrivare ad una unica consapevolezza maschile generale è l’obiettivo che dobbiamo porci, dal livello individuale è necessario partire, ma la strada da percorrere è la collettività maschile, altrimenti è una battaglia che non si vince. Ecco perché rilancio la necessità dei gruppi di autoconsapevolezza maschile come strumento di elezione per il cambiamento nelle questioni di genere.

martedì 25 novembre 2014

BASTA AL FEMMINICIDIO BASTA ALLA VIOLENZA SULLE DONNE


Vi aspettiamo numerose e numerosi

il 25 novembre dalle 13 alle 17 sul Ponte sul Naviglio a Corsico 

il 28 novembre alle ore 20.30 al Centro Civico Giorgella,p.zza Giovanni XXIII 



lunedì 24 novembre 2014

MOSTRA DELLE ASSOCIAZIONI MASCHILE PLURALE E OFFICINA

DAL 21 AL 20 NOVEMBRE Ventunesimodonna espone la mostra delle

Associazioni Maschile Plurale e Officina sotto i Portici di via Cavour a 

Corsico con la collaborazione dei negozianti che ringraziamo















dal 15 al 29 novembre in BIBLIOTECA 

COMUNALE. via Buonarroti 8 Corsico 










e al Bem viver cafè, via Monti





venerdì 14 novembre 2014

25 NOVEMBRE GIORNATA MONDIALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

Tutte le iniziative di "ventunesimodonna" in occasione del 25 novembre
GIORNATA MONDIALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE
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VI ASPETTIAMO NUMEROSE E NUMEROSI

giovedì 13 novembre 2014

Divario di genere, la parità solo nel 2095. Italia ultima tra i Paesi industrializzati


La classifica del Wef: 69esimo posto (dal 71esimo) dietro il Bangladesh. Grave ritardo nell'uguaglianza salariale: 114esimo. Passi indietro anche nel comparto dell'istruzione; il miglioramento generale si deve solo alla politica. A livello globale, serviranno 81 anni per chiudere la forbice delle opportunità lavorative tra maschi e femmine.
Più donne in Parlamento e al governo. E' grazie a loro se l'Italia accenna a un miglioramento nelle pari opportunità nell'indice sul "gender gap" 2014 calcolato dal World Economic Forum. Per "gender gap" si intende il divario di genere all'interno di un Paese, che nella classifica dell'ente che organizza il forum di Davos non rappresenta un valore assoluto paragonabile direttamente con i risultati degli altri Stati. Ad ogni modo, si può trarre una classifica di questo indice, nella quale l'Italia sale di due posizioni, dalla 71esima alla 69esima su 142 paesi, ma si trova - in termini relativi - dietro al Bangladesh e alla Repubblica Kirghiza, confermandosi all'ultimo posto tra i principali Paesi industrializzati.
Nei nove anni di vita dell'indice, la Penisola ha comunque registrato un miglioramento della condizione femminile: nel 2006 era al 77esimo posto e nel 2007 addirittura all'84simo. L'anno migliore è stato il 2008, quando è arrivata al 67esimo posto, ma poi la crisi si è fatta sentire anche nel "gender gap".
Lo dimostra soprattutto il netto peggioramento dell'indicatore sulla partecipazione economica e sulle opportunità, che vede l'Italia scivolare al 114esimo posto (e ultimo in Europa) dal 97esimo del 2013 e dal già non esaltante 85esimo del 2008. In particolare, in questo ambito, la Penisola è 129esima per l'uguaglianza salariale per il medesimo lavoro, nel senso che laddove un uomo guadagna 40mila dollari l'anno, la donna con le stesse mansioni ne percepisce in media meno di 23mila.
A sorpresa l'Italia - stando allo studio - negli ultimi 9 anni ha fatto passi indietro nella parità nell'istruzione: nel 2014 è solo 62esima contro il 27esimo posto del 2006 e nel 2013 era 65esima. A penalizzare il ranking è il calo nelle iscrizioni di bambine nella scuola primaria, mentre per la scuola secondaria e l'università l'Italia si conferma come molti altri paesi al primo posto.
E' migliorata la parità di genere in termini di salute e durata della vita: in questo sotto-settore l'Italia sale al 70esimo posto, dal 72esimo dello scorso anno e contro l'inquietante 95esimo del 2010. Ma è nel potere politico che l'Italia guadagna punti nelle pari opportunità. Il balzo è evidente: dal 72esimo posto del 2006, passando dall'80esimo del 2007, si arriva al 44esimo del 2013 fino al 37esimo di quest'anno.
A dare la spinta è la composizione "paritetica" del governo Renzi, così come l'aumento delle donne elette in Parlamento nell'ultima tornata elettorale. A riequilibrare la bilancia del potere è però la casella sugli anni in cui una donna è stata capo dello Stato, visto che per l'Italia il punteggio resta zero.
Il rapporto quest'anno assegna la prima posizione all'Islanda, davanti a Finlandia, Norvegia, Svezia e Danimarca, patrie scandinave delle pari opportunità. A sorpresa la sesta posizione è appannaggio del Nicaragua, grazie al primo posto nella parità di salute e durata di vita, davanti all'ancor più sorprendente Rwanda, 25esimo per la partecipazione economica e sesto per il potere politico. Ottavo posto per l'Irlanda, seguita dalle Filippine che sono prime per pari opportunità educative e nella salute. Chiude la 'top ten' il Belgio, che supera Svizzera e Germania. La Francia è 16esima, gli Stati Uniti 20esimi e il Regno Unito 26esimo.
Secondo il Wef, resta molto ampia nel pianeta la disparità di genere delle opportunità lavorative: in 9 anni si è solo ridotta del 4%, passando dal 56% al 60%. Di questo passo ci vorranno 81 anni per chiudere il divario e quindi per avere la parità nel posto di lavoro bisognerà aspettare il 2095.




mercoledì 12 novembre 2014

FEMMINICIDIO, DI GENERE SI MUORE

Oltre 100 i femminicidi dall’inizio dell’anno, uno ogni tre giorni. I numeri del fenomeno in Italia e i provvedimenti adottati per contrastarlo.Lotta alla violenza contro le donne
La parola femminicidio suona male. Però serve. Definire in modo appropriato la categoria criminologica del delitto perpetrato contro una donna perché è donna, è necessario. Per capire e spiegare meglio contesti, cercare di non banalizzare il fenomeno e di non ridurlo a una invenzione mediatica. Anche perché i numeri parlano chiaro. Oltre 100 i femminicidi dall’inizio dell’anno. Praticamente uno ogni tre giorni. In giugno Camera e Senato hanno avviato un iter legislativo per contrastare la violenza sulle donne: attraverso la ratifica della Convenzione di Istanbul e della presentazione in agosto di un decreto legge, convertito in legge pochi giorni fa. Provvedimento che, però, ha attirato su di sé svariate polemiche e che ha subito continui rinvii nella sua finalizzazione.
LA PAROLA - Il termine femminicidio si usa quando in un crimine il genere femminile della vittima è una causa essenziale, un movente, del crimine stesso, nella maggior parte dei casi perpetuato all’interno di legami familiari. Donne uccise dai fidanzati, mariti, compagni, ma anche dai padri a seguito del rifiuto di un matrimonio imposto o di scelte di vita non condivise. Come ricorda l’esperta e avvocato Barbara Spinelli, consulente dell’ONU in materia di violenza sulle donne (autrice del libro "Femminicidio, dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale"), questa parola non se la sono inventata i giornali. Negli anni ’90 una antropologa messicana di nome Marcela Lagarde ha analizzato le violenze perpetuate sulle donne messicane individuando le cause della loro marginalizzazione in una cultura machista e in una società che non dà tutele dal punto di vista giuridico, con indagini lasciate pendere e con lo stupro coniugale non considerato come reato. Lagarde è la teorica del termine femminicidio. In esso, oltre all’omicidio, racchiude anche tutte le discriminazioni e pressioni psicologiche di cui una donna può essere vittima. Lo definisce così: “La forma estrema di violenza di genere contro le donne – scrive Lagarde – prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine che comportano l’impunità tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa”.
I NUMERI - Di genere si muore. Il quotidiano La Stampa ha avviato un osservatorio per monitorare i femminicidi appuntando su una mappa dell’Italia i casi di cronaca. Dall’inizio del 2013 questo osservatorio ha contato 73 casi di femminicidio e 38 casi di omicidi generici di donne. La distribuzione geografica dei crimini è abbastanza omogenea lungo il Paese sebbene si possano notare alcuni “addensamenti” di casi in area milanese e napoletana. Gli omicidi si possono suddividere anche in base al mezzo usato per uccidere. E nella maggior parte si uccide in modo quasi atavico: con un’arma da taglio, magari un coltello trovato in cucina (sono 34 i casi del genere) oppure a mani nude (33 omicidi). Meno usate le armi da sparo (24 episodi); si contano poi 11 uccisioni con corpo contundente, 5 casi di donne arse vive, ed una che è stata avvelenata.
Nel 2012 sono state 124 le donne uccise da uomini. Il conto l’hanno fatto le volontarie della Casa delle donne di Bologna, unica realtà in Italia che si occupa di raccogliere i numeri sul femminicidio basandosi sulle notizie pubblicate a mezzo stampa. Infatti, sebbene il comitato della Cedaw (la Convenzione ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne, che l’Italia ha sottoscritto), nel 2011 abbia richiesto all’Italia di strutturare un metodo per raccogliere i dati sul femminicidio, il nostro paese è indietro e una raccolta ufficiale ancora non esiste. Secondo il dossier che la Casa delle donne ha presentato lo scorso 8 marzo, la maggior parte dei delitti avvenuti nel 2012 si sono svolti – a dispetto degli stereotipi – nel nord: uno degli elementi individuati come “scatenanti” sarebbe la parità di genere. Il 31% delle vittime di violenze domestiche erano straniere e di nazionalità italiana il 73% degli assassini. Il rapporto della Casa delle donne di Bologna ha evidenziato tuttavia una nota positiva: una maggior attenzione della stampa quando si scrive di femminicidio. Evitare frasi fatte che banalizzano e non spiegano, come “omicidio passionale”, aiuta, infatti, a far capire meglio la portata del fenomeno. Sottolineare negli articoli le denunce e i maltrattamenti che hanno preceduto il delitto, senza parlare, in modo facile, di “raptus”, sposta l’attenzione su un fattore chiave: il femminicidio spesso è solo l’ultimo grado di un climax, e raramente è frutto di un momento d'ira incontrollata. I dati della Casa delle donne dimostrano, infatti, che quattro donne su dieci – un dato che si ritiene sottostimato – hanno subìto abusi prima di venire assassinate. Questo accende un faro sulla prevenzione: è possibile fermare la violenza, dicono le autrici del dossier, “destinando risorse ai centri antiviolenza, rafforzando le reti di contrasto ad essa tra istituzioni e privato sociale qualificato, perché sempre più donne possano sentirsi meno sole e superare la paura”.
IL FENOMENO - Nel dicembre 2012 l’Eures, in collaborazione con l’Ansa, ha pubblicato un’indagine sul fenomeno del femminicidio negli ultimi dodici anni (dal 2000 al 2011). Dai numeri emerge un crescendo del fenomeno negli ultimi anni (dal 2009 in poi) che raggiunge nel 2011 il record del 30,9% degli omicidi totali: un omicidio su tre è rosa. Tra i femminicidi censiti nel decennio in analisi, ben il 70,8%, cioè 1.459 casi, è avvenuto nell’ambito di relazioni familiari o affettive. Praticamente sette donne su dieci vengono uccise in famiglia. Questa caratteristica è costante, con piccole oscillazioni, per tutto l’arco di tempo preso in considerazione: nel 2011, il 70,6% dei femminicidi è stato in famiglia. Più della metà dei carnefici (66,3%) sono coniugi, partner, ex partner. Gli assassini tendenzialmente vivono con la donna che uccidono (nel 41,6% dei casi censiti erano conviventi), mentre il 17,6% sono ex coniugi o ex compagni; c’è anche un 7% che ha ucciso l’amante con cui non ha mai convissuto. Quasi la metà degli omicidi compiuti dagli ex avviene nel lasso di tempo dei primi tre mesi dopo la rottura della relazione. Ma in oltre cento casi l’omicidio è scaturito dalla sola intenzione di interrompere il legame. Secondo il dossier “l’abbandono è un tarlo”. Che si rinnova a fronte di nuovi eventi (nuovo partner della ex, formalizzazione legale della separazione, affidamento dei figli). La percentuale dei femminicidi scende all'11,8% tra i 90 e i 180 giorni dalla separazione, per risalire al 16,1% nella fascia temporale compresa tra 6 e 12 mesi, al 14,9% in quella tra 1 e 3 anni ed al 6,2% in quella tra 3 e 5 anni, dove giocano un ruolo rilevante le decisioni legali ed i tentativi di ricostruire nuovi percorsi di vita. Soltanto il 3,7% dei femminicidi nelle coppie separate avviene dopo 5 anni dalla separazione.
Sono di più i figli che uccidono le madri (176 vittime, pari 12,1%) dei padri che uccidono le figlie (124 vittime pari all'8,5%). Tutti gli altri tipi di relazione hanno tassi di incidenza molto più bassi, con valori pari al 2,5% per le sorelle, all'1,9% per le suocere e all'1,1% per le nonne. Uscendo dai contesti strettamente familiari, l’indagine ha rilevato 91 casi (il 4,4% del totale) in cui l'assassino è un amico o un conoscente, 49 femminicidi nei rapporti di vicinato (2,4%) e 29 nei rapporti economici (1,4%). Consistente è poi il numero di prostitute uccise nell’ultimo decennio: 148 vittime.
IL TARGET: TRA I 25 E I 54 ANNI - Oltre metà dei femminicidi dell’ultima decade hanno interessato questa fascia d’età. Giovani donne e madri. In termini assoluti il più alto numero di vittime si ha tra le ultrasessantaquattrenni: 472 nell'intero periodo, pari al 22,9% del totale. Tuttavia le donne in quella fascia d'età sono più numerose: infatti l'indice di rischio medio annuo è pari a 5,9 donne uccise ogni milione di residenti della stessa fascia di età, decisamente inferiore alle altre. Il valore più alto è nella fascia 25-34 anni (7,2 femminicidi per milione di residenti), seguita dalla fascia 35-44 anni (7,0 vittime per milione di residenti), e da quella 18-24 anni (con un indice di 6,9 e 182 vittime censite). Sono infine 130 le minorenni uccise in Italia tra il 2000 e il 2011 (85 nella fascia 0-10 anni e 45 nella fascia 11-17), con un indice di rischio (2,2) decisamente inferiore a quello di tutte le altre fasce di età (5,7 il valore complessivo).
LA GEOGRAFIA - Tra il 2000 e il 2011, continuano Eures e Ansa, ci sono stati complessivamente 2.061 femminicidi: la metà di questi casi, 728 donne uccise, cioè il 49,9% del totale, si è rilevata nel nord Italia, un 30,7% di casi sono al sud e il 19,4% al centro. In termini di incidenza sulla popolazione la prerogativa del nord si conferma: qui, infatti, ci sono 4,4 vittime ogni milione di donne residenti, contro una media-paese di 4 (al sud è 3,5). Scendendo a livello regionale il rapporto Eures-Ansa individua nella Lombardia la prima regione per numero di numero di femminicidi (251, cioè il 17,2%), seguita dall'Emilia Romagna (128 e 8,8%), dal Piemonte e dal Lazio (entrambe con 122 vittime nei 12 anni considerati, pari all'8,4% del totale). Osservando tuttavia l'incidenza sulla popolazione femminile, è il Molise la regione più violenta, con 8,1 femminicidi medi annui per milione di residenti (16 casi); seguono la Liguria (6,1), l'Emilia Romagna (4,9), l'Umbria (4,8 con 26 femminicidi), il Piemonte (4,5) e la Lombardia (4,3).
LA CONVENZIONE - Lo scorso 19 giugno è stata ratificata da Camera e Senato la Convenzione di Istanbul per la prevenzione e il contrasto della violenza sulle donne. La Convenzione è stata approvata dal Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011 ed è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante in materia di protezione dei diritti della donna contro ogni forma di violenza. Dallo scorso giugno, dunque, la Convenzione è legge anche in Italia: lo scopo è quello prevenire atti di violenza, proteggere le vittime e perseguire gli aggressori, oltre che riconoscere una volta per tutte la violenza sulle donne come una violazione dei diritti umani. È composta da 81 punti alcuni dei quali riguardano anche la protezione dei bambini testimoni di violenza domestica, la penalizzazione dei matrimoni forzati, delle mutilazioni genitali femminili e dell’aborto e della sterilizzazione forzata. Tuttavia perché la Convenzione sia effettivamente vincolante è necessario che gli Stati firmatari varino una legge d’attuazione che possa coprire finanziariamente e concretamente gli interventi di prevenzione e sostegno.


giovedì 6 novembre 2014


tante donne e tanti uomini insieme per il diritto delle donne di muoversi in libertà e sicurezza sempre e  ovunque









LIBERE di USCIRE. LIBERE di CORRERE


Uno dei capisaldo di un cammino verso reali Pari Opportunità è costruire un mondo dove donnee uomini, bambini e bambine godano degli stessi diritti. Per un genitore, padre o madre che sia, è terribile dovere dare istruzoni diverse a seconda che si rivolga ad un figlio o ad una figlia.
Mi batto contro questa ingiustizia da quando sono piccola.
L'ingiustizia permane ancora oggi e chiunque abbia figli maschi e figlie femmine sa bene che quest'ultime sono più limitate nei loro spostamenti: la discoteca è lontana? hai 16 anni? e allora troviamo qualcuno che ti accompagni, ti vengo a prendere non ci vai eccetera eccetera.
Giorni fa Irene correva lungo il Naviglio, frequentato canale milanese, durante un giorno festivo,mezzogiorno. Mentre era ferma ad una fontanella per bere, in quattro l'hanno circondata e seviziata tentando di stuprarla. Per torturarla hanno usato un pezzo di vetro ed un coltello.
Irene è poi scappata, ha corso insanguinata fino al Centro Sportivo più vicino, dopodiché è svenuta.
"Meno male che è viva" diceva ieri un'amica.
"Meno male che la violenza non è riuscita" diceva un'altra.
Sì.
Certo è che la vita di Irene non sarà mai più la stessa, di questo ne siamo tutte consapevoli.
E allora da quando Irene è stata aggredita, noi donne siamo ancora più spaventate: anch'io corro spesso sul Naviglio ed ho pensato che da sola forse non ci andrò più. Le madri impaurite hanno ridotto la libertà delle figlie, le ragazze sono corse a dotarsi di spray antiaggressione.
Come tanti anni fa. Siamo ancora ferme qui.
NO.
Non riduciamo il nostro spazio vitale, né il nostro né quello delle nostre figlie.
Milano ci appartiene, e' anche nostra e abbiamo diritto a viverla liberamente.
Che l'Amministrazione delle città facciano in modo che le loro cittadine possano vivere liberamente. Come vivono liberamente gli uomini.
Che ci si informi delle azioni intraprese in città ritenute sicure: ero a Berlino recentemente e alle 3 del mattino vedevo moltissime ragazze tornare liberamente a casa sole.
Che si inizino questi corsi alla relazione e al rispetto di cui si parla da anni, e che li si proponga nelle scuole ma anche agli adulti italiani e stranieri.
E che di questo problema, che è un problema di democrazia che non funziona, si occupino donne e uomini insieme.
Perchè la battaglia per il diritto alla libertà di ci riguarda tutte e tutti.


mercoledì 5 novembre 2014

Consigliere di parità o dame di carità? Di Valeria Maione

Private di fondi e risorse, senza uno stipendio, impossibilitate a fare il loro lavoro ma sovraccariche di responsabilità formali: questa è oggi la situazione delle consigliere di parità. Il forte
disinvestimento rende esplicito che la politica istituzionale le considera superflue e non crede nel loro operato. La domanda dunque è: sono davvero necessarie?
Il ruolo delle consigliere e i consiglieri di parità, che di seguito menzioneremo al femminile data la scarsa rappresentanza di uomini nella categoria, viene messo in discussione dai tagli alle risorse necessarie per svolgere le proprie mansioni. Vista la situazione di stillicidio forse vale la pena ripercorrere la storia della funzione di consigliera, analizzarne le funzioni e capire se ancora ha un senso che esista questa figura.
L'incarico di consigliera di parità nasce con le leggi 863/84 e 56/87 e attraversa quattro fasi[1] . Il primo periodo, negli anni ‘80, è caratterizzato da una attribuzione di funzioni che però non è sostenuta da una conseguente attribuzione di poteri. In pratica, per assolvere ad un obbligo di immagine, si concedeva un riconoscimento formale, senza rendere agibile un effettivo controllo sul mercato del lavoro. Nella seconda fase, con la legge 125/91, i poteri furono previsti e articolati ma i soldi per renderli operativi no. Le consigliere divennero forti sulla carta ma deboli nella realtà. Alla situazione rimediò la legge 196/2000, e siamo alla terza fase, attraverso il decentramento e il potenziamento delle funzioni in rete delle consigliere. Le funzioni vengono razionalizzate e potenziate, vengono date dotazioni operative e finanziarie. Rimaneva qualche criticità che avrebbe avuto bisogno di un intervento legislativo, ma quando si presentò l'occasione nel 2006, anno in cui, per adeguarsi alla direttiva europea dello stesso anno[2], viene stilato il Codice delle pari opportunità, si fece tutto in fretta e furia a fine legislazione e male, perdendo l'opportunità di rettificare e innovare.
Con la crisi e una revisione della spesa che ha tagliato con l'accetta soprattutto nel sociale i fondi delle consigliere sono stati ridotti drasticamente, e così si apre la quarta fase: grandi potenzialità e scarse possibilità pratiche di intervento. Come se non bastasse, l’esiguo fondo (attribuito nel 2013) per le attività delle consigliere destina l’87% delle risorse alle Regioni a statuto speciale inibendo di fatto l'operato delle altre realtà locali. Parlando di soldi, non meritano commento i 16 euro lordi mensili previsti come compenso forfettario per le consigliere di parità regionali. C'è un ripiegamento, un colpo di frusta che non giova alla tutela delle donne contro le discriminazioni sul lavoro, visto che in alcuni casi le consigliere sono state chiamate a rispondere in prima persona, anche a livello finanziario, di azioni in giudizio che le hanno viste soccombenti. Situazione aggravata da un aumento delle competenze, verificatosi in relazione alla legge 215 del 2012, che prevede che le consigliere debbano vigilare sulla composizione delle commissioni di concorso pubblico affinché sia garantita una presenza “paritaria” dei due sessi.
Dal Dgs. 198/2006 si evince che le Consigliere di parità hanno delle attribuzioni che le connotano distinguendole da tutti gli altri organismi territoriali simili. Sono infatti pubblici ufficiali, soggetti terzi ai quali si richiede preparazione specifica ed esperienza pluriennale. Per la verità, sui curricula, specie negli ultimi tempi, non sembra ci sia stata la necessaria attenzione e d’altra parte l’aver introdotto il concetto di “funzionalità” al sistema di fatto lega un organismo di garanzia, che dovrebbe essere di per sé indipendente, alle decisioni politiche delle istituzioni locali.
Cosa fanno concretamente le consigliere? Operano in ambito lavorativo per promuovere e monitorare l’applicazione dei principi di parità, di pari opportunità e contrastare le discriminazioni di genere , fanno parte delle Commissioni tripartite, dei Tavoli di partenariato locale e dei Comitati di sorveglianza. Possono chiedere alle Direzioni del lavoro ispezioni e andare in giudizio contro le discriminazioni[3] a prescindere dalla volontà di parte. In molti contesti e con numerosi soggetti hanno stilato protocolli di intesa che consentono di rendere ancor più forte il legame con il territorio che hanno nel tempo coltivato. Ogni due anni le consigliere di parità regionali raccolgono ed elaborano i rapporti sulla situazione del personale delle imprese con più di 100 addetti, operazione che dovrebbe consentire, oltre alla conoscenza del contesto, il richiamo di quelle unità produttive troppo squilibrate per genere. Altre attività e funzioni[4] potrebbero essere menzionate così come si potrebbe evocare la giurisprudenza che si è andata creando negli anni, penso ad esempio alla legittimazione ad agire dinanzi al TAR nei confronti di Giunte con la sola presenza maschile, per la consigliera di parità regionale, oppure la costituzione di parte civile nelle molestie sessuali in ambito lavorativo (sentenza del Tribunale di PT, 8/9/2012 n. 177-8).
Per dare un'idea di che cosa fa una consigliera, racconterò una delle storie di discriminazione che si sono risolte con il mio intervento in veste di consigliera della Liguria. Una giovane donna stava facendo un percorso formativo in un particolare settore per il quale potevano (ma non dovevano) essere richieste caratteristiche fisiche, che proprio in quanto donna, la giovane non aveva. La donna mi riportò una situazione di obiettiva e continua umiliazione perchè secondo i formatori non rientrava negli standard richiesti. C'era un piccolo particolare però: la società responsabile del corso aveva preso dei contributi locali proprio perché nel percorso formativo sarebbero state ammesse anche le donne. Ci vedemmo una prima volta con il titolare che mi fece notare come non discriminassero le donne in generale, ma avessero a che fare con una donna che non riusciva a fare quanto previsto. Chiedemmo un incontro anche con l’interessata che, al momento di spiegare la situazione, si dimostrò fragile, provata, molto, forse troppo, emotivamente coinvolta. Per un attimo temetti di non riuscire ad ottenere granché. Ma quando mi fecero presente che, essendo dei formatori, consideravano il fallimento di una discente, oltre che un dispiacere, un fattore di debolezza della struttura, domandai loro se e quanto fossero attribuibili a loro stessi le debolezze e le criticità che la giovane aveva palesato, se le stesse non potessero essere frutto di un loro scarso impegno nel supportarla e metterla in condizione di superarle. Fu la svolta. Ci accordammo che la studentessa avrebbe cambiato percorso mantenendo molti dei crediti che il suo obiettivo impegno le aveva fatto acquisire e avrebbe ottenuto un brevetto per compiere operazioni che non richiedevano quegli standard per lei non raggiungibili. Alla fine quella giovane ha conseguito più di un brevetto con piena soddisfazione sua e della struttura di formazione. Potrei aggiungere che la persona che l’aveva trattata, diciamo così, con poco tatto, è stata allontanata, ma questa è un’altra storia.
Molti casi di questo genere sono alla continua attenzione delle consigliere che si prodigano in primo luogo ascoltando e trovando delle soluzioni, quando possibile, a prescindere dalle azioni specifiche che possono essere messe in atto coinvolgendo i sindacati e i giudici. Posso testimoniare che spesso l’ascolto risulta una medicina più efficace di molte altre. Anche perché ascoltando e impegnandosi si trovano soluzioni, spesso inattese. Ricordo ancora un lavoratore, maschio, perché alle consigliere non si rivolgono solo le donne, che si riteneva discriminato nel suo lavoro. Probabilmente era soltanto non opportunamente collocato. Per non limitarmi al puro ascolto mi rivolsi ad un altro organismo di garanzia che opera sul mio territorio. Oggi lavora con soddisfazione proprio in quella struttura alla quale l’avevo proposto come persona da seguire…
Conoscere il ruolo e le attività del lavoro delle consigliere dovrebbe indurre quantomeno a riflettere sul percorso politico in atto che vede lo svuotamento di questa figura. Alcune consigliere rinunciano a ricandidarsi perchè un ruolo così denso di funzioni operative diventa incompatibile con l'attività che svolgono per mantenersi, altre si dimettono perchè nei contesti in cui operano non vengono riconosciute e appoggiate. Quindi la domanda è “non servono più”? Se la risposta politica è che no, non servono, sarebbe opportuno dirlo chiaramente invece di osteggiare e svuotare.
Non si può negare la necessità di ripensare per intero la materia, e probabilmente su questo versante non si è ancora fatto abbastanza, ma un ripensamento non comporta necessariamente una totale distruzione. Da economista prima di tutto mi sembra che ciò costituisca uno spreco di risorse e di esperienze che non possiamo permetterci.


martedì 4 novembre 2014

#vagadetotes: le donne cominciano a fermare il mondo da Barcellona

Il 22 ottobre è stato il primo giorno di #VagaDeTotes. Dopo numerose assemblee nelle piazze e la stesura di un manifesto politico, le manifestanti, femministe e donne di diverse provenienze e differenti per età, si sono mobilitate fin dalla mattina presto realizzando blocchi del traffico in diversi punti della città. La giornata di mobilitazione, ricca di perfomance e azioni mirate, si e’ conclusa con una manifestazione unitaria in Pl. Catalunya alle 19.
Il loro prossimo obiettivo è uno sciopero generale indetto dalle donne e che rappresenti le donne.
Non si tratta di uno sciopero come gli altri. Date le diverse misure politiche e l’attacco legale, sociale ed economico sempre più gravi contro i diritti, la dignità e la libertà, si vogliono riappropriare dello sciopero come strumento di lotta, recuperando la tradizione che ha visto le donne avere ruoli chiave in scioperi e sommosse storiche. “Cosa vuol dire per noi riappropriarsi dello sciopero come strumento di lotta? Significa, in primo luogo, che la modalità di scioperi generali degli ultimi anni non è utile, in quanto si limita ai dipendenti impegnati nel mercato del lavoro salariato riconosciuto, escludendo molte persone e molti posti di lavoro. L’iniziativa si propone di colpire il mondo produttivo, sì, ma soprattutto di superare i modelli androcentrici classici per essere utile a tutte le persone e a tutto il mondo del lavoro: produttivo, riproduttivo, domestico, sessuale, formale o sommerso. Uno sciopero dei consumatori, uno sciopero della cura, uno sciopero di disobbedienza civile, in breve, uno sciopero di tutte”, si legge nel loro blog.
Lo sciopero di tutte, una mobilitazione dal nome “Noi donne muoviamo il mondo, fermiamolo!”. Culmina a Barcelona in una manifestazione di massa per denunciare che le donne sono quelle che maggiormente soffrono gli effetti della crisi. La giornata di protesta è stata piena di azioni tra le quali è in evidenza l’occupazione del Circolo Economia da parte di decine di femministe per denunciare i suoi legami con l’Associazione di Imprenditori presieduto da Monica Oriol Pau Rodriguez.
Se le donne si muovono il mondo, lo possono anche fermare.
Sulla base di questa logica centinaia di donne giovedì hanno sostenuto “lo sciopero di tutte”, una giornata piena di azioni per rivendicare i diritti delle donne e dei diversi fronti di lotta femminista che hanno avuto il loro culmine in una manifestazione di massa per le strade del centro di Barcellona. “Siamo stanche delle politiche sociali, economiche e legali che minano in modo sempre più grave i nostri diritti e la nostra dignità“, proclama il loro manifesto, redatto dopo un processo di quasi un anno di incontri di gruppi femministi una mobilitazione che è stato molto più di un semplice sciopero generale che, loro dicono, è troppo legato al concetto di lavoratore di sesso maschile, con problemi spesso diversi dai problemi delle donne. “Siamo quelle che soffrono di più gli effetti della crisi: tagli in ambito sanitario ed educativo sono quelli che maggiormente di pregiudicano, perché siamo noi donne che tendiamo a prenderci cura dei nostri cari,piccoli o grandi che siano”, si lamenta Laura Lozano attivista femminista, mentre la manifestazione avanzava da Plaza Catalunya fino alla Gran Via. “Facendo lavori molto diversi tra loro molto mal pagati”, ha spiegato Laura, “non si riesce a partecipare a scioperi generali, ritenendoche un giorno come oggi sia imprescindibile per dare visibilità a tutti i problemi delle donne. “C’è vita oltre la riforma dell’aborto” sentenziava, quando la protesta raggiungeva già Calle Diputaciòn. Ed è al di là della riforma guidata dal ministro dimissionario Alberto Ruiz Gallardón, ora temporaneamente “parcheggiata” dal governo stesso, che la rivendicazione dei collettivi femministi vuole mettere l’accento su molte altre politiche che incidono negativamente sulle donne. “Vogliamo uno sciopero politico, creativo, che vada al di là dello sciopero produttivo,” spiega il manifesto che nasce dalle denunce contro la violenza di genere (35 donne uccise da questo flagello, o la riduzione del patrimonio netto di bilancio 2014, fino al rifiuto della legge sull’immigrazione – “che ci condanna al lvoro sommerso ed al razzismo ” )recita il manifesto e alla riforma del lavoro. Quest’ultima aumenta,di questo si lamentano, le disuguaglianze che già colpiscono le donne. Tuttavia, la giornata è stata un continuo di azioni principalmente concentrate a Barcellona, con blocchi stradali dalle prime ore del mattino, alcune interruzioni ddi lezioni universitarie e di apertura più spazi di discussione. L’azione più eclatante è stata forse l’occupazione da parte di decine di femministe del Circolo dell’ Economia per denunciare il suo legame con il Circolo degli Impresari, organizzazione guidata da Monica Oriol, autrice delle dichiarazioni controverse secondo le quali che l’assunzione di donne tra i 25 e 45 potrebbe essere un problema perché queste donne potrebbero rimanere incinte. Anche se la giornata ha visto il proprio punto focale con la manifestazione attraverso le vie del centro di Barcellona, l’obiettivo della mobilitazione è che le rivendicazioni ottenute oggi possano progredire in avanti, nel futuro.
I collettivi che hanno aderito a questo Manifesto hanno già circa 600 aderenti tra entità sociali e gli individui. Tra gli obiettivi del gruppo c’è il lavoro per poter programmare e mettere in atto uno sciopero di tutte in maggio, che sia però questa volta uno sciopero di lavoratrici




lunedì 3 novembre 2014

Argentina: il raduno femminista più grande al mondo

All'inizio nel 1986 erano solo 10 oggi hanno invaso in 40mila le strade di Salta per parlare dei loro problemi, per dare voce ai loro bisogni e per celebrare la femminilità libera e spontanea. In un paese dove ogni 35 ore si compie un femminicidio, come quello di Eva Murillo, il cui nome le donne gridavano negli slogan, e dove si muore ancora per gli aborti clandestini, riuscire a incontrarsi è come una rivoluzione.
Benvenuti nella città delle donne
Argentina: il raduno femminista più grande al mondo Le ragazze californiane che viaggiano per l'America Latina con lo zaino in spalla, i signori delle piantagioni di tabacco che prendono un caffè in piazza con la camicia della domenica, le donne indigene che vendono i pani di mais stufato, i mocciosi all'inseguimento del pallone e con loro anche tutti gli altri personaggi che solitamente circolano per la città argentina di Salta, si sono sorpresi durante l'ultimo fine settimana davanti a un fenomeno unico: le strade erano state invase da migliaia di donne, venute da tutto il paese, dal continente e finanche dal mondo per incontrarsi e parlare dei loro problemi, per dare voce ai loro bisogni e per celebrare la femminilità libera e spontanea del loro essere.
Se ne attendevano 25 mila, ma sono state più di 40 mila. Alcune hanno viaggiato in pullman per ore, provando i cori della manifestazione, altre hanno valicato in aereo quelle Ande maestose che coronano il luogo in cui si erano date appuntamento, intrattenendosi con una commedia romantica e una coppa di rosè. Le une giovani e intransigenti contro la vecchia abitudine delle battute maschiliste e allusive. Altre più avanti negli anni, rapide nello spararne in serie, perché dicono che con l'età si scherzi più volentieri sul sesso. Già, il sesso, il "sesso debole", il "gentil sesso", si continua a sentir dire, facendo andare su tutte le furie le fanatiche che per settimane hanno coltivato il rifiuto della depilazione e ora lo sfoggiano orgogliose marciando su un viale a seno nudo, sputando in faccia ai fondamentalisti che proteggono le belle chiese cittadine con una catena di preghiera, e litigando continuamente con le compagne che si danno una crema costosa al gruppo di dibattito sul divorzio, o quelle che vanno col rosario al collo a dormire sul pavimento di una delle scuole che il comune ha aperto per alloggiarle tutte.
Non c'è aggettivo per descrivere il tipo di donne che si sono incontrate a Salta, o almeno, non ce n'è uno che ne comprenda l'insieme. È proprio perché sono uniche e diverse che si sono incontrate ogni anno per 29 volte, dal 1986 a oggi. All'inizio erano solo 10, poi sono cresciute, andando di pari passo con la storia argentina e del resto del pianeta. Un pianeta in cui tuttavia la maggior parte degli stati a sud dell'Equatore proibisce ancora l'aborto, assistendo alla morte di 40 donne al minuto, che hanno cercato un'interruzione di gravidanza clandestina; ma anche un'Argentina dove la violenza sulle donne segna ogni mese un nuovo record, portando la stessa città di Salta a dichiarare l'emergenza sanitaria e gli statistici locali a riferire di un femicidio ogni 35 ore in tutto il paese, che spesso resta impunito.
Ecco, se c'è una parola che può comprendere la varietà delle partecipanti all'Incontro delle Donne 2014, non è un aggettivo, ma un nome: quello di Eva Murillo. Fino alla settimana scorsa Carmen Evelia Murillo era solo una maestrina di campagna, mentre oggi è già un idolo delle masse. Certo, ci ha dovuto mettere la vita, ma, come dice sua sorella Mirta, che le ha scritto una poesia, "forse non è stato un sacrificio vano". La sua è la storia di una ragazza madre che, non appena la figlia è diventata maggiorenne, ha accettato il trasferimento in una scuola remota, in un posto che fa arrossire chi ne pronuncia il nome, perché in spagnolo suona tipo "lo stupidaio": El Bobadal. A El Bobadal Eva avrebbe guadagnato il doppio che a Salta e avrebbe potuto pagare l'iscrizione ad architettura di Sofia, anche se al costo di tornare a casa solo ogni tre mesi.
Così ha accettato di andarci. Di cucinare col forno a legna ogni giorno per 10 scolari di etnia wichi. Di insegnare loro tutte le materie del programma e di spostare i banchi la sera, per fare spazio ai materassi in cui quei 10 piccoli indiani avrebbero passato la notte, perché le loro famiglie vivono a 20, 30 km di savana da lì, e passano a prenderli solo nel week-end. Una routine da seconda madre che Eva considerava temporanea, ma che è stata interrotta prima del previsto da José Cortez, detto Macu, e dalla sua sbornia. L'arrivo del Macu ubriaco è stato annunciato venerdì 3 ottobre da una ragazza di diciott'anni, che ha aperto la porta della scuola di Eva verso le dieci di sera, piangendo perché un uomo voleva violentarla.
Quando Macu ha bussato, Eva ha detto alla ragazza: "Stai dentro", e poi è uscita a dire: "Vai via!" allo stupratore, ma l'altro aveva un fucile e ha sparato senza ribattere. Puntando dritto al petto, perché per ammazzare gli eroi bisogna fermargli il cuore. "Da quando c'è stato il funerale, viene tutti i giorni un sacco di gente", dice la portinaia del cimitero, di quella donna di 44 anni che ha sfidato la morte per salvare una ragazzina. "La testa è da quella parte", precisa invece il becchino, indicando il lato sud della cucitura di terra smossa che ha lavorato sul prato fresco del camposanto. Sulla tomba di Eva c'è solo un mazzo di fiori, in una bottiglia di plastica tagliata. Il suo nome, quel nome che nella Bibbia fu della prima donna sulla terra, non c'è, perché l'hanno preso le altre e l'hanno messo su tutte le bandiere, su tutti i cartelli e l'hanno scritto sui muri di Salta, la città delle donne.

Accanto alla sorella di Eva c'è spesso quella di Paola Acosta, Marina. Maru è convinta di aver assistito a un miracolo, da quando suo cognato ha ucciso la sorella e l'ha gettata in un tombino insieme alla loro figlia di due anni. Ci sono volute 80 ore prima che la polizia le trovasse: la madre ha ceduto piano piano l'ultimo calore che le restava al mondo e ha salvato la bimba. "La faremo pagare a quel figlio di troia", ruggisce Marina contro l'assassino, coniando una frase che diventa subito uno slogan. Uno slogan come quello che ha chiuso l'incontro: "Nonostante tutto, ce l'abbiamo fatta: ci siamo incontrate anche quest'anno". Significa nonostante i conservatori che hanno fatto di tutto per evitare l'incontro, nonostante i divieti di certi mariti e la diffidenza di certe signore. Nonostante tutto, ce l'hanno fatta e ognuna di loro adesso, tornando a casa, scopre di essere cambiata.

domenica 2 novembre 2014

Quest'articolo e' sul corriere ..con la foto del Parco ex Pozzi......quindi siamo a Corsico....


Aggredita dal branco, sfregiata, tagliuzzata con un vetro o la punta di un coltellino sul viso, sulle braccia, sulle gambe, sul ventre. Picchiata. Presa alle spalle in pieno giorno mentre beveva alla fontanella dopo una corsa di quattordici chilometri. Sbattuta contro il muro poco lontano, come un cencio, violata da sei, otto mani e lasciata lì a gridare, sporca del suo sangue, i pantaloncini e la maglietta sportivi strappati, ferita fuori e nell'anima, terrorizzata. È andata così, per Irene, 40 anni, milanese, runner quasi professionista, capelli scuri raccolti dietro la nuca. Mercoledì scorso all'una, nel parco ex Area Pozzi, lungo il Naviglio Grande, tre o quattro balordi l'hanno circondata mentre rientrava dal solito allenamento. Ancora un chilometro e mezzo e sarebbe arrivata alla Canottieri Milano. Il traguardo.
La doccia, pensava Irene. E poi ancora di corsa. Un altro tipo di corsa, per fare la mamma, gestire la casa, organizzare il lavoro per il giorno dopo e sentire le amiche. C'era il sole ancora caldo, la luce di fine ottobre che pareva primavera, e alla vista di quella fontanella, nel parco, si è fermata un attimo. Stop al ritmo. Un clic al cronometro sul polso per stoppare il tempo. Ed è iniziato l'inferno.
Non appena si è chinata per appoggiare le labbra al filo d'acqua fresca, l'hanno presa e fatta prigioniera. Il cronometro non è più ripartito. Erano tre, quattro, Irene non sa dire. Il terrore le ha cancellato la memoria. L'hanno sbattuta contro il muro del caseggiato giallo pieno di scritte e graffiti e nessuno sa dire grazie a chi, o cosa, il branco non sia riuscito a portare a termine lo stupro. È un'atleta, Irene, e si è difesa come ha potuto. Ha urlato, pregato, invocato. E intanto quelli affondavano il coltellino sul suo corpo. Le mani la toccavano, le strappavano i vestiti, la picchiavano ancora.

Quando pensava d'essere perduta, s'è ritrovata libera. Allora Irene, una maschera di sangue e lacrime, si è messa a correre a perdifiato. È crollata tra le braccia di altri due runner, l'hanno portata nel centro sportivo della Canottieri Milano e lì ha perso i sensi. Un giorno e una notte in ospedale per medicare le ferite, poi la visita alla Mangiagalli, dove transitano le donne vittime di violenza sessuale. Ai carabinieri ha detto quel poco che sa. Di quei maiali ricorda ancora l'odore forte e i grugniti. Non i volti, non la voce. «Uno aveva i guanti», ripete Irene. L'ipotesi è che il branco, in quel tratto di città fatto per lo sport e per due salti all'aria aperta, stesse aspettando la preda giusta. Lungo quella stradina, sul Naviglio, furti e crimini si consumano da sempre. Eppure nessuno fa niente.

sabato 1 novembre 2014

Aborti, in Italia nel 2013 calati del 4%. Ma interruzioni clandestine oltre 15miladi Adele Lapertosa

I risultati del rapporto del ministero della Salute inviato al Parlamento sull'applicazione della legge 194. Resta alto il numero degli obiettori di coscienza tra ginecologi, anestesisti e infermieri
Continua a calare il numero di aborti in Italia e a rimanere alto quello degli obiettori di coscienza tra ginecologi, anestesisti e infermieri, anche se quei (pochi) che eseguono le interruzioni volontarie di gravidanza sono comunque sufficienti rispetto agli interventi che si fanno: queste alcune delle conclusioni che emergono dalla relazione inviata al Parlamento dal ministero della Salute sull’applicazione della legge 194. Dati che confermano quelli dell’anno precedente, ma che, secondo i ginecologi della Laiga (Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge 194), raccontano una realtà diversa da quella che invece vivono ogni giorno medici e pazienti.
Secondo la relazione infatti, nel 2013 sono state notificate 102.644 interruzioni di gravidanza, cioè il 4,2% in meno rispetto al 2012, e il tasso di abortività è risultato pari a 7,6 aborti per 1.000, con un calo del 3,7% rispetto al 2012. Tante ancora le donne straniere che ricorrono all’interruzione di gravidanza, visto che sono circa il triplo delle italiane, anche se stanno iniziando a stabilizzarsi, mentre l’Italia in Europa è uno dei paesi con il minore ricorso all’aborto tra le minorenni, rispetto agli altri Paesi dell’Europa Occidentale. Più o meno stabile, dal 2005, il numero di aborti clandestini, che secondo i calcoli dell’Istituto superiore di sanità per il 2012 sono stimabili in 12-15mila tra le italiane e 3-5mila tra le straniere.
Il dato più interessante, e a tratti sorprendente, è quello che riguarda invece l’obiezione di coscienza, che pur avendo numeri da capogiro, non provocherebbe sostanzialmente problemi ai colleghi non obiettori che devono lavorare di più né complicazioni alle pazienti. La relazione contiene infatti i risultati del primo monitoraggio su aborti e personale obiettore, condotto dal ministero insieme alle Regioni. Da qui emerge che nel 2012 in media sono stati obiettori più di due ginecologi su tre (69,6%), la metà degli anestesisti (47,5%) e per il personale non medico c’è stato un ulteriore incremento, con valori che sono passati dal 38,6% nel 2005 al 45% nel 2012. Poi ci sono i “picchi” di alcune regioni, come Molise e Basilicata, dove i tassi di obiezione tra i ginecologi si aggirano sul 90% e quello tra gli anestesisti sull’80%. Ma, secondo i dati, le “ivg” vengono effettuate nel 64% delle strutture disponibili, dunque con una copertura “soddisfacente”, tranne che in Molise e nella provincia autonoma di Bolzano. E, considerando il numero di aborti che ogni settimana deve fare ogni ginecologo non obiettore, ipotizzando 44 settimane lavorative in un anno, a livello nazionale ogni non obiettore ne effettua 1,4 a settimana, un valore medio fra il minimo di 0,4 della Valle d’Aosta e quello massimo del Lazio, con 4,2.
Il numero dei non obiettori nelle strutture ospedaliere è dunque “congruo” rispetto alle ivg effettuate, “quindi gli eventuali problemi nell’accesso al percorso – conclude la relazione – sono dovuti eventualmente ad una inadeguata organizzazione territoriale”. Soddisfatta Eugenia Roccella, parlamentare Ncd. “L’obiezione di coscienza – rileva – non rappresenta un ostacolo al ricorso alle interruzioni volontarie di gravidanza. Le criticità segnalate sono dovute alle eventuali inadeguatezze sanitarie delle diverse regioni, ma non si possono usare gli obiettori per mascherare i problemi dell’organizzazione sanitaria locale”. “Favole” secondo Giovanna Scassellati, ginecologa non obiettrice dell’ospedale San Camillo di Roma. “Noi così crediamo alle favole – commenta amara – Il San Camillo fa un terzo di tutte gli aborti della regione Lazio. Nel mio reparto di ginecologia, siamo senza primario, lavoriamo sotto organico e su un sacco di turni. Il problema è che non ci si ribella mai, e quando lo si fa, si viene penalizzati”. Anche i numeri sul carico di lavoro settimanale non collimano con quelli della realtà lavorativa quotidiana, come conferma Silvana Agatone, presidente della Laiga. “All’ospedale Pertini di Roma siamo in tre a fare 80 interruzioni di gravidanza al mese, cui ci sono ad aggiungere gli aborti terapeutici – evidenzia – I dati della relazione sono viziati da una distorsione di fondo, perché monitorano l’offerta e non la domanda. Sappiamo che ad esempio nel Lazio e nelle Marche ci sono ospedali che fanno 2-3 interventi a settimana, costringendo così le donne a ‘emigrare’ in altre strutture e regioni”.