martedì 28 febbraio 2017

Aborto, l’esilio dei medici non obiettori in Italia: soli in sala operatoria, costretti ad auto-assistersi e senza carriera di Silvia Bia

Disagi per lo svolgimento della professione, mancanza di personale e problemi personali. Il percorso dei dottori che decidono di praticare l'interruzione volontaria di gravidanza è sempre più problematico. Dopo la condanna del Consiglio d'Europa, la denuncia delle associazioni. Laiga: "Chi fa obiezione ha vita più facile in Italia"

In Campania durante un intervento di aborto l’infermiera si è rifiutata di sterilizzare i ferri invocando l’obiezione di coscienza, anche se di fatto non sarebbe stata lei a praticare materialmente l’interruzione di gravidanza. Così il medico per non bloccare tutto, ha dovuto arrangiarsi da solo, lavando lui stesso la strumentazione per potere poi procedere all’operazione. In un’altra struttura del sud Italia sono stati i portantini a non volere accompagnare le pazienti che dovevano abortire in sala operatoria, e in un’altra ancora a incrociare le braccia è stato il ferrista che ha il compito di passare bisturi e garze al chirurgo, rischiando così di far saltare l’intervento.

In Italia essere medici non obiettori significa anche far fronte a situazioni del genere: non poter lavorare o farlo in condizioni di emergenza, anche se di un’emergenza non si tratta. Perché chi vuole semplicemente fare il proprio dovere, accettando di aiutare una donna a interrompere una gravidanza, rischia di finire in un girone di minacce e ostacoli sul posto di lavoro che possono andare dal semplice insulto alla vera e propria impossibilità di svolgere la professione. La sentenza del Consiglio d’Europa che ha accolto il ricorso della Cgil, conferma ancora una volta come l’Italia sia un paese in cui è difficile abortire, ma anche e soprattutto fare abortire.

Una realtà in cui vittime sono le donne, a cui viene negato il diritto all’autodeterminazione, ma anche i medici e il personale sanitario che prestano loro assistenza, che vengono discriminati, mobbizzati, addirittura denunciati di omicidio. In corsia il popolo dei non obiettori diminuisce anno dopo anno e per lavorare deve scontrarsi ogni giorno con chi in virtù dell’obiezione di coscienza si rifiuta di praticare un’interruzione di gravidanza. C’è chi deve far fronte a continue emergenze, svolgendo mansioni che non gli competono, subendo le critiche dei colleghi, e chi addirittura è costretto a difendersi davanti ai tribunali. Perché spesso i colleghi, oltre che additare, sporgono anche denuncia per omicidio o mandano lettere di protesta alla struttura. “Non è raro che i medici che praticano l’aborto finiscano sotto inchiesta per le denunce di altri colleghi” racconta a ilfattoquotidiano.it Silvia Agatone, presidente di Laiga (Libera associazione italiana ginecologi), che insieme all’associazione non governativa International planned parenthood federation European network l’8 marzo del 2014 aveva vinto un primo ricorso presentato al Consiglio d’Europa contro l’Italia per la violazione dei diritti delle donne che intendono interrompere la gravidanza.

Ai disagi legati allo svolgimento della professione e ai problemi giudiziari, si devono aggiungere le prospettive di carriera praticamente azzerate per i non obiettori. Tanto che in un quadro così complicato è sempre più arduo capire quanto per medici e personale sanitario la scelta dell’obiezione sia realmente libera, dettata soltanto da motivi di coscienza o religione, oppure semplicemente opportunistica. “Sicuramente gli obiettori hanno vita più facile in Italia – continua Agatone – Chi invece sceglie di applicare la legge, magari poi deve spendere tempo e soldi in tribunale per difendersi dalle accuse”. Gli ospedali in Italia non si fanno carico della questione e così ogni aborto può trasformarsi in una guerra intestina in reparto in cui i non obiettori si ritrovano soli. Ci sono colleghi che inveiscono contro di loro se magari un’interruzione di gravidanza fissata dopo il 90esimo giorno per una malformazione del feto termina con l’espulsione nel proprio turno, oppure altri che interrompono la terapia piuttosto di prendere in carico un paziente. “I non obiettori subiscono vessazioni e minacce continue – continua Loredana Taddei, responsabile Cgil delle politiche di genere – Nel giro di due anni l’Italia è già stata condannata due volte dall’Europa in tema di aborto, ma le cose non sono ancora cambiate. L’unica soluzione sarebbe quella di fare applicare la legge, sia per i diritti delle donne che per i medici non obiettori. Se non venissero così tanto penalizzati, ce ne sarebbero di più e le cose sarebbero più semplici per tutti”.

Secondo i dati del ministero della Salute infatti gli aborti negli ultimi anni sono in diminuzione, ma il motivo, chiarisce la presidente di Laiga, “è proprio il fatto che ci sono sempre meno medici non obiettori e quindi è più difficile fare aborti nelle strutture pubbliche”. La soluzione per l’associazione e anche per la Cgil dovrebbe arrivare dal governo, che deve fare applicare innanzitutto la legge. Una via percorribile per Laiga sarebbe quella di scegliere primari che si facciano garanti del rispetto della norma, bandire concorsi con un numero di posti riservati ai medici non obiettori e assicurare che in ogni provincia ci sia almeno un ospedale che garantisce il trattamento di interruzione di gravidanza prima e dopo i 90 giorni. Ma è Roma che deve decidere. Anche per questo il sindacato ha chiesto un confronto serio con il ministro Beatrice Lorenzin per rispondere alle criticità emerse dalla sentenza europea. “Questa seconda decisione del Comitato Europeo è una preziosa occasione per tutti – ha concluso Taddei – per le donne, per i medici non obiettori e per i medici obiettori a cui nessuno chiede di svolgere le interruzioni di gravidanza. Occorre una buona organizzazione degli ospedali e delle Regioni come già richiede la legge 194”.

lunedì 27 febbraio 2017

Si può rimettere in discussione il diritto all’obiezione di coscienza in nome del diritto all’aborto? di Michela Marzano

Si può rimettere in discussione il diritto all’obiezione di coscienza in nome del diritto all’aborto e cancellare la libertà di coscienza sulla base di ideali progressisti? La libertà di coscienza è uno di quei diritti fondamentali che sono alla base di ogni democrazia liberale. Lo afferma per la prima volta la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789; lo ribadisce la Convenzione europea dei diritti umani; lo rivendica chiunque abbia a cuore non solo il rispetto dell’autodeterminazione di ogni persona, ma anche la necessità di salvaguardare lo spirito critico evitando il rischio che, smettendola di pensare con la propria testa, si finisca con l’eseguire ciecamente ciò che ci viene domandato. Al punto di scivolare “banalmente” nel male, per utilizzare le parole di H. Arendt che in certi casi considera la disobbedienza come un dovere. È nella libertà di pensiero e opinione che trova le proprie radici l’obiezione di coscienza, invocata in un primo tempo dai pacifisti nei confronti del servizio militare, ma poi estesa anche ai medici e ad altre professioni in cui l’integrità personale può talvolta fare a pugni con gli ordini, le richieste o le norme giuridiche.
Come accade però con ogni diritto, anche per l’obiezione di coscienza è necessario prevedere restrizioni, almeno ogniqualvolta altri diritti, ugualmente legittimi, rischiano di essere calpestati – come accade nel caso dell’IVG, ma anche per la procreazione assistita, il fine vita, ecc. Nonostante la legge 194 preveda che le strutture pubbliche garantiscano la possibilità di abortire a ogni donna che lo abbia deciso, i dati raccontano d’altronde come la realtà sia ben più complessa: in alcuni ospedali, il tasso degli obiettori è talmente alto (talvolta anche superiore al 90%) che molte donne sono costrette a spostarsi da una regione all’altra o a recarsi all’estero. Come ha recentemente ricordato il Consiglio d’Europa – condannando l’Italia per violazione sia del diritto delle donne ad accedere all’IVG, sia del diritto dei medici non obiettori al lavoro – non permettere ad una donna di abortire significa svuotare di senso la legge e, di fatto, accettare il ritorno di aborti clandestini. Ma come può uno Stato tollerare l’ipocrisia di quando si permetteva ad alcune donne, le più privilegiate, di abortire tranquillamente, lasciando le altre nella disperazione?
Il problema di fronte al quale siamo oggi non è quello della legittimità o meno dell’obiezione di coscienza dei medici, come alcuni suggeriscono, né quello dell’illegittimità dell’aborto, come ripetono coloro che non perdono occasione per trasformare le norme morali in pietre da scagliare. Il problema è quello del bilanciamento, e quindi dell’equilibrio necessario, tra il diritto di alcune persone all’obiezione di coscienza e il diritto di altre ad accedere all’IVG nelle strutture sanitarie pubbliche. L’apparente conflitto tra i due diritti viene infatti meno nel momento in cui, come al San Camillo di Roma, i medici appena assunti abbiano già accettato, in piena coscienza, di praticare aborti. Perché non immaginare allora di regolamentare a livello nazionale una riserva concorsuale per i medici non obiettori invece di cancellare la possibilità stessa dell’obiezione di coscienza che, come il diritto all’autodeterminazione e alla salute, fa parte delle libertà fondamentali di ognuno di noi?
http://www.michelamarzano.it/obiezione-coscienza-aborto/

venerdì 24 febbraio 2017

Aborto, tutti a difendere il diritto degli obiettori. E quello delle donne? di Elisabetta Ambros

E che doveva fare un ospedale come il San Camillo di Roma, dove si praticano oltre 2000 aborti l’anno e gli obiettori sono l’enorme maggioranza, per continuare a garantire il servizio? Assumere ginecologi che poi magari avrebbero praticato l’obiezione di coscienza, tornando, così al punto di partenza? Bene ha fatto la Direzione a indire un concorso che, contrariamente a quanto si è scritto, non chiedeva esplicitamente ai medici assunti di non essere obiettori di coscienza ma più chiaramente, e semplicemente, spiegava il lavoro che sarebbero andati a fare: aborti, appunto, perché non c’è abbastanza personale per farli. Qual è stato il diritto leso, in questo caso? Quello di chi si è presentato in quanto ovviamente non obiettore e disposto a lavorare in quell’ambito? Quello di chi, invece, non si è presentato, esercitando tranquillamente la sua obiezione di coscienza non andando al concorso?

È incredibile. Si crea un putiferio perché un ospedale chiama due medici per garantire un diritto che è scritto in una legge dello Stato. Una cosa inaudita, che non sarebbe potuta accadere in nessun altro paese al mondo, anche perché altrove, i medici obiettori sono pochissimi (in Svezia pari allo zero). È una realtà che esiste solo in Italia in proporzioni così abnormi, con Regioni dove praticamente è impossibile abortire, e altre – la maggioranza – dove si possono aspettare settimane e settimane: una forma di violenza per chi è incinta ma ha deciso di non portare avanti la gravidanza e che chiede solo una cosa: di poter abortire subito, perché psicologicamente è durissimo aspettare.

Mi chiedo: ma in tutti questi anni, e mesi, quale voce si è alzata per difendere il diritto delle donne ad abortire, ogni giorno leso, violato, disprezzato? Chi ha mai alzato una mano per quei medici obiettori che fanno questo lavoro “sporco”, vengono marginalizzati, non fanno carriera, perché magari credono nel diritto protetto da una legge dello Stato? Si dice che la 194 è stata violata: ma come? Ma quando? Invece viene violata ogni volta che una donna si presenta in un ospedale e le viene chiesto di andarsene, oppure deve aspettare un tempo inverosimile. Ed è veramente avvilente vedere la ministra della Salute, una donna, non spendere una parola a favore delle donne e preoccuparsi solo del clamore mediatico suscitato poi da chi? Dalla Cei, la Conferenza Episcopale Italiana, che mai e poi mai dovrebbe interferire con questioni che riguardano lo Stato italiano e in particolare la salute delle donne.

Speriamo che nessun giudice si pronunci su questa decisione, definendola incostituzionale (perché ci sarà chi la porterà davanti al giudice, sicuramente, non avendo altro di meglio da fare nella vita). Perché incostituzionale non è. A violare la Costituzione è semmai un sistema sanitario dove la percentuale di medici obiettori (alcuni dei quali sono stati, tra l’altro, trovati a praticare aborti a pagamento nei loro studi), è talmente alta da rendere veramente arduo, ormai, abortire rapidamente, com’è giusto che sia; o senza spostarsi per centinaia di chilometri. Come invece accade ogni giorno, nel silenzio dei media. E del ministero della Salute.

Ma poi, infine, mi chiedo: se i medici assunti fossero al cento per cento obiettori? Non ci sarebbero più aborti? È evidente che la questione dell’obiezione di coscienza pone un problema. Bisognerebbe mettere tetti, ma anche in quel caso i paladini dell’obiezione griderebbero all’incostituzionalità. Invece la soluzione del San Camillo è davvero giusta: devo assicurare un servizio, e per assicurarlo mi servono tot medici che pratichino aborti. Faccio un concorso per assumere chi effettivamente può svolgere questo servizio, lasciando liberi gli obiettori di rispettare la loro libertà di coscienza non prendendone parte. Scommettiamo che improvvisamente tanti ginecologi anti-aborto si trasformerebbero in zelanti abortisti? Troppo comodo invece essere interni, e potersene lavare le mani, senza conseguenze. Anzi, pare, facendo grandi carriere.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/02/23/aborto-tutti-difendere-il-diritto-degli-obiettori-e-quello-delle-donne/3410345/

giovedì 23 febbraio 2017

La violenza non ammette prescrizione

Apprendiamo con sgomento:

La Repubblica: "Questo è un caso in cui bisogna chiedere scusa al popolo italiano". Con queste parole, la giudice della Corte d'Appello Paola Dezani, ieri mattina, ha emesso la sentenza più difficile da pronunciare. Ha dovuto prosciogliere il violentatore di una bambina, condannato in primo grado a 12 anni di carcere dal tribunale di Alessandria, perché è trascorso troppo tempo dai fatti contestati: vent'anni.
"Tutto prescritto. La bambina di allora oggi ha 27 anni. All'epoca dei fatti ne aveva sette."

Corriere della Sera: «Abbiamo chiesto scusa alla vittima perché siamo stati costretti a chiedere il proscioglimento dell’imputato, nonostante non volessimo farlo. Ma è intervenuta la prescrizione». Così il procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo."

Nessuna scusa, perché l'esito non può cambiare, perché la giustizia italiana ha fallito e non ha fatto il suo dovere per arrivare in tempi congrui a sentenza. Quella bambina diventata donna, oggi cosa può pensare? Risulta palese che di fronte all'orrore e alla violenza che le sono stati inferti non ci sia stata nessuna forte e reale volontà di fare giustizia.
Perché nulla può giustificare venti anni di processo e un reato di violenza su una bambina che va in prescrizione. Una giustizia inspiegabilmente naufragata tra le maglie di due gradi di giudizio che hanno sbriciolato il reato, mandandolo in prescrizione. Giorno dopo giorno chi subisce violenza dovrà superare decine di ostacoli, interrogatori, udienze, domande, con un esito incerto che peserà come un macigno. Chi si vuole veramente tutelare?
Chi ha curato la difesa della bambina? E’ stata supportata al meglio sia dal punto di vista legale che psicologico? Queste sono alcune delle domande che ci poniamo.

Quando si arriva a questo risulta difficile credere che per il nostro sistema giudiziario sia davvero prioritario perseguire chi commette violenze e abusi. A quanto pare non lo è o non lo è dappertutto e la volontà, non il caso, in questi frangenti determina se ci sarà o meno giustizia. Così a violenza si aggiunge violenza. Il messaggio che passa è terribile, desolante. Prescrizione in questi casi non può esserci, perché questa donna porta con sé questo fardello che ha cancellato la sua infanzia, come avrebbe dovuto essere, come aveva diritto a viverla. Uno Stato non può pensare di mettere una pietra sopra a quanto accaduto. Questa donna vuole giustamente dimenticare, ma lo Stato non può gettare nell'oblio un reato che reca con sé ripercussioni permanenti su una cittadina. È come dire che la violenza resta un fatto personale, che se va bene verrà punito, se va male passerà nell'oblio.

Le violenze no, non si cancellano, non smettono di fare male mai. E non possiamo spalancare le braccia, rammaricati per due gradi che hanno coperto due decenni. Ciascuno dovrebbe prendersi le sue responsabilità, per tempo e non solo quando non c'è più modo di rimediare.
Vedremo che esito avranno gli  accertamenti preliminari disposti dal Ministero della Giustizia per acquisire informazioni.
Evidentemente si è voluto voltare la testa dall'altra parte. Avete voltato le spalle prima alla bambina e poi alla donna.

Il gruppo Chi Colpisce Una Donna, Colpisce Tutte Noi
https://www.facebook.com/notes/chi-colpisce-una-donna-colpisce-tutte-noi/la-violenza-non-ammette-prescrizione/1775107929473743

martedì 21 febbraio 2017

Lezioni di sessualità alle medie: i genitori vogliono cacciare il prof di religione di Claudia Sarritzu

Un professore nuorese rischia di perdere il posto dopo aver assegnato delle letture agli alunni che i genitori hanno definito inappropriate

 Ieri a Nuoro in Sardegna è scoppiata la polemica dopo che un giovane insegnante di religione (chi l'avrebbe mai immaginato) ha proposto ai suoi studenti di una scuola media di 11 e 12 anni la lettura di due libri della scrittrice Marida Lombardo Pijola, “Facciamolo a skuola” e “Ho 12 anni, faccio la cubista, mi chiamano principessa”.

Il docente, io oserei dire l'eroe, sembra infatti l'unico non affetto da sessuofobia in cicolazione, si chiama Giovanni Siotto e ha definito queste letture educative e da leggere però (vista la giovane età dei ragazzi) “insieme ai genitori”, per riflettere sulla nostra società basata sul consumismo sfrenato, sull’idolo dell'immagine, sull'oggettivazione sessuale del corpo femminile e sulla superficialità dei rapporti sentimentali.

Verrebbe da dire: finalmente un insegnante di religione che fa l'insegnante e non l'impiegato della diocesi. Finalmente la sessualità entra a scuola. Finalmente qualcuno non la considera più un tabù. Ma il professor Siotto è stato duramente attaccato dai genitori dei suoi alunni affetti da bigottismo all'ultimo stadio che hanno sposato idee da chiesa medioevale incoraggiando l'istituto a cacciare lo "Strego" che poteva chi sa magari far scoprire ai loro fanciulli che non erano nati sotto un cavolo.

Il dirigente della scuola ha frenato, mentre il vescovo di Nuoro Mosè Marcia (... e da un vescovo che ti aspetti?!) ha invece ribadito "per noi, se ne deve andare a casa" precisando "sono in attesa di capire meglio dai dirigenti".

La dottoressa Luisanna Porcu, psicologa e madre di due alunni del professore ha invece contro corrente dichiarato su Facebook: "È un libro vecchio che racconta la storia di 5 ragazze di una scuola media romana di 12 anni che in una società sessista si sentono apprezzate solo per il loro corpo. Narra come lo usano e lo vendono per sentirsi apprezzate e come i ragazzi incentivino questo. Questo testo usato con i genitori può davvero aiutarci a fare un'educazione sentimentale ai nostri figli/e, visto che l'educazione sessuale prevista dal ministero si limita purtroppo all'uso del preservativo".

Vorrei in ultimo ricordare che siamo nel 2017 e ancora esistono genitori che hanno paura di parlare di sesso con i figli. Quel libro spaventa perché spaventano le domande a cui avrebbero dovuto rispondere. Quanta strada c'è da fare, si fa un passo in avanti a scuola e due indietro a casa...
http://www.globalist.it/news/articolo/211878/lezioni-di-sessualit-alle-medie-i-genitori-vogliono-cacciare-il-prof-di-religione.html

lunedì 20 febbraio 2017

Quando “sei così magra/o!” fa più male che bene

Quella che segue è la traduzione (con qualche taglio a causa della lunghezza) di un articolo che intende farci riflettere, e magari portarci ad abbandonare, un comportamento che si ritiene più o meno universalmente benevolo e che si mette in pratica quasi in automatico, ovvero: fare complimenti sull’aspetto fisico. “Come sei dimagrit*!”; “Questo vestito ti fa sembrare più magra”, “Sembri una modella!”, complimenti apparentemente innocenti ma potenzialmente pericolosi…

Pop quiz: Se conosci una ragazza o una donna che ha perso peso ma non sai come e perché lo ha perso, cosa fai?
A: Complimenti, complimenti, complimenti. Più elogi la sua nuova e attraente forma, meglio è.
B: Non dici nulla di persona, ma la prossima volta che la vedi su Instargam o Facebook, butti giù qualche “sei così magra” sotto un paio di foto per farle capire che hai notato.
C: Parli di qualsiasi cosa tranne del suo aspetto. Di quanto sia divertente, delle previsioni meteo, del suo lavoro, del tuo pranzo, di quel cane che sta passando. Qualsiasi altra cosa.

Questa potrebbe sembrare una domanda trabocchetto perché i complimenti sull’aspetto fisico sono buoni, giusto?
Voglio dire, viviamo in un mondo in cui la maggior parte delle ragazze e delle donne ha un pessimo rapporto con il proprio corpo, quindi sentirsi dire cose belle sul proprio aspetto potrebbe aiutarle, giusto?
Non è sempre così. Le risposte “a” e “b” effettivamente potrebbero fare più male che bene, e abbiamo appena ricevuto una mail da una fantastica fan di Beauty Redefined che è perfetta per aiutarci a capire per quale motivo “c” è la risposta migliore di tutte le altre:

“L’anno scorso, quatto mesi dopo aver partorito, ho iniziato a concentrarmi sul migliorare la mia salute, mangiare sano, fare esercizio fisico. Nel corso dei sei mesi successivi ho perso un’ importante quantità di peso e mi sentivo bene- meglio di quanto non mi sentissi da anni e anni- quindi ero felice. C’era una cosa della quale non ero felice: il fatto che chiunque incontrassi ritenesse improvvisamente appropriato fare commenti sul mio aspetto fisico. Persone che appena conoscevo giudicavano perfettamente ragionevole iniziare a farmi domande sul mio peso e la mia taglia. I membri della mia famiglia mi dicevano che ora stavo benissimo e io non potevo fare a meno di stare male per la me di un anno fa, che avevo amato, ma che a quanto pare per chiunque poteva essere molto meglio. Io- una donna che si è sempre sentita infinitamente più definita dalle proprie idee e dal proprio senso dell’umorismo piuttosto che da un numero o da una bilancia- mi sentivo improvvisamente molto a disagio per qualsiasi cosa. Tutte queste nuove attenzioni mi hanno fatta scoprire preoccupata di nascondere le mie braccia flaccide (perché perdere molto peso lascia molta pelle) e le tette cadenti (perché ero stata incinta e/o in allattamento per gli ultimi cinque anni). E lo sapevo quanto fosse sbagliato ma non potevo fare a meno di pensare: “Se le persone credono che io ora stia bene, penseranno che io stia ancora meglio se perdessi altr1 10 chili”. Quelle improvvise (e immeritate) lodi hanno veramente distrutto tutte le mie precedenti convinzioni sull’immagine positiva dei corpi e sul potere femminile . Non ho risposte”

Ma noi abbiamo alcune risposte! Iniziamo con il perché è così importante smettere di parlare dei corpi degli/delle altri/e- persino quando supponiamo che sia un comportamento carino- e poi arriveremo a parlare di quello che possiamo fare se siamo cadute/i nella spirale dell’ossessione per l’aspetto fisico, spesso causata dalle costanti attenzione sui nostri corpi.

Per iniziare, hai appreso in prima persona che è ora di smetterla con il controllo sui corpi. Non è compito di nessuna/o di noi commentare l’aspetto fisico delle altre persone. Nè in faccia, né alle spalle. Molto spesso ricorriamo a conversazioni sull’aspetto fisico quasi di default, dobbiamo riconsiderare questo modo di chiacchierare automatico. Questo è vero soprattutto per le ragazze e le donne, che crescono sentendo dappertutto che l’aspetto fisico è da guardare prima di ogni altra cosa.

Troppe donne conoscono le conseguenze debilitanti dei disturbi alimentari, dell’ossessione per l’aspetto fisico, delle ansie e delle depressioni legate alla percezione del corpo, tutto per cercare di soddisfare degli irraggiungibili ideali di bellezza.
Sapevate che i ricoveri di bambine con disturbi del comportamento alimentare sono aumentati del 100 % negli ultimi dieci anni? Aiutiamo le bambine a capire che sono molto di più dei loro corpi scegliendo di evitare discussioni sull’aspetto fisico delle altre donne, nei media e nella vita reale.
Sapevate che la chirurgia plastica è aumentata del 446% negli ultimi dieci anni? Con il 92% di questi interventi volontari (soprattutto liposuzione e aumento del seno) eseguiti su donne? Aiutiamo a ridurre la sempre più forte tentazione di ricorrere a dolorosi e costosi interventi chirurgici non parlando mai negativamente del corpo di un’altra donna, nei media e nella vita reale.
Sapevate che l’auto-oggettivazione lascia, sia la più giovane delle ragazze che la più adulta delle donne, con minori risorse cognitive spendibili in attività intellettuali e fisiche, comprese la matematica, il ragionamento logico, le abilità spaziali, le performance atletiche? Aiutiamo a porre fine a questa spirale di ossessione per l’apparenza fisica cambiando le conversazioni, dal corpo delle donne, nei media o nella vita reale, a qualsiasi altra cosa.
[…]
Quindi amici/amiche, se conoscete persone che hanno perso peso, e non stanno parlando pubblicamente del come hanno fatto, non sentono il bisogno di discuterne. Non fate loro automaticamente i complimenti. Non commentate pubblicamente sotto le loro foto con un “sei così magra/o!”. Non fatelo. Perchè non sapete se loro stanno facendo esercizio e mangiando in modo sano, oppure sono depressi/e o in difficoltà, oppure se soffrono di un disturbo alimentare o se stanno facendo ricorso a comportamenti malsani per inseguire ideali malsani. Non lo sapete.
E troppo spesso quei complimenti come “Oh sei fantastica/o!” sono il motivo per cui qualcuna/o sentirà il bisogno di continuare a percorrere una strada poco sana o a far uso di pillole per dimagrire o ad esagerare con l’esercizio fisico o nel disturbo alimentare. Anche solo vedere commenti sull’aspetto fisico sotto una foto online di qualcun’altra/o, più e più volte, può spingere qualcuna/o a intraprendere una strada pericolosa.
Altre volte una malattia o qualche altro disturbo può causare al/alla vostro/a amico/a una perdita di peso involontaria e “sei dimagrito/a!” è esattamente l’esempio di complimento sbagliato che vorrebbero ricevere in quel momento. Possiamo fare molto meglio di un costante controllo sui corpi.

E’ il momento di valorizzare le donne e le ragazze al di là del loro aspetto fisico. Vai più in profondità la prossima volta che fai un complimento. Se fai un complimento sull’aspetto fisico, bilancia con un complimento sul carattere. Dì loro qualcosa di carino su chi sono, cosa fanno, su quanto ci tieni a loro al di là del loro aspetto. Quando minimizziamo altre donne solo per i loro corpi, ci dimentichiamo di ricordare la bellezza dei loro talenti, del loro carattere, della loro personalità.

E noi possiamo inconsapevolmente dare loro la motivazione per perseverare in comportamenti malsani in modo da rimanere “qualificati” per ricevere complimenti sul loro aspetto. Noi siamo molto di più dei nostri corpi, cerchiamo di assicurarci di ricordare a tutte/i questa potente verità.

Ma cosa fare se, come nell’esempio della nostra amica, ricevi complimenti sul tuo aspetto fisico? E se hai perso peso recentemente e tutte le attenzioni sul tuo aspetto come “stai molto meglio!”ti tengono focalizzata su te stessa come un corpo che viene giudicato prima di tutto il resto?

Troppo spesso quei complimenti basati sull’aspetto fisico perpetuano l’idea che l’aspetto sia la cosa più importante della tua vita. Una volta che hai raggiunto la vetta dei complimenti, devi lavorare costantemente e più duramente per impressionare le persone della tua vita e ricevere più complimenti. Se le persone smettono di farti complimenti sentirai di dover lavorare un po’ più duramente per guadagnare le loro lodi.

Questo ciclo inutile ed egoista deve essere fermato!

Tu sei molto di più di un corpo da guardare. Qui ci sono tre infallibili strategie da usare nel momento in cui ti senti cadere nell’inutile buca dell’ossessione per l’aspetto fisico:

Cambia discorso

La prossima volta che la conversazione inizia a ruotare intorno al tuo aspetto fisico e questo ti mette a disagio, cogli l’occasione per dare una piccola lezione in modo gentile e cordiale : “Ci sono tantissime altre cose molto più interessanti del mio corpo di cui parlare! Sapevate che di recente sono stata in vacanza?” o “Noioso! Parliamo di te, Coma va il tuo lavoro?” o, usando un po’ di onesta vulnerabilità : “ Grazie, ma io sono più a mio agio a parlare di altre cose piuttosto che del mio corpo, com’è stato il tuo weekend?” o “Devo essere del tutto onesta, ho preso la decisione di complimentarmi con le donne per cose diverse dal loro aspetto fisico, perché vorrei far sì che si smettesse di parlare di cose superficiali come l’aspetto fisico così spesso” oppure puoi dire loro che hai appena letto su un fantastico blog un post sul cambiare discorso quando si ricevono complimenti sull’aspetto fisico e tu hai promesso di farlo ( poi naturalmente mandi loro questo link!)

Datti un obiettivo sportivo
Indipendentemente dal tuo aspetto, o dal modo in cui pensi di aparire, puoi stare bene con te stessa perchè tu non sei il tuo aspetto fisico. Il peso, la taglia, le misure, sono solo numeri. […]
Mettiti alla prova dandoti un obiettivo sportivo, questo convaliderà la verità che il tuo corpo è potente e capace e che tu non sei solo una decorazione fatta per essere ammirata da tutti. […]

Butta via la tua bilancia
Tracy Moore su Jezebel l’ha spiegato benissimo: “ Chiedi a te stessa. Cosa accadrà esattamente quando raggiungerai il magico peso X? Sforzati di immaginare la vita perfetta che ti porterà il peso perfetto. Com’è? Non litigherai mai più con tuo marito? Quel collega che ti piace ti chiederà di uscire?”  […] Non esiste il numero perfetto per nessuno. Puntare all’obiettivo di un qualche peso considerato perfetto e a quel punto immaginare che nella tua vita non ci saranno più problemi o che supererai tutti i problemi che avevi dovuto affrontare quando avevi 20 chili in più è una perfetta e totale illusione. Una perdita di tempo. E probabilmente anche qualcos’altro.

Anche i nostri fans su facebook hanno valutato attraverso le loro esperienze che sentirsi dire “sei così magro/a” è stata esattamente la cosa più sbagliata di cui avevano bisogno.

Quando mia madre era malata e tre mesi dopo morì, ero così triste e distrutta dal dolore che ho perso 10 chili. Chiunque al lavoro si complimentava con me e mi diceva di continuare qualsiasi cosa stessi facendo perché stava veramente funzionando!

Avevo una cara amica che ha avuto un aborto e un uomo in chiesa commentò così il suo aspetto “più magra e più in forma” e lei disse“sì, immagina…” e lui continuò “Dai, devi guardare il lato positivo”. Avrei voluto tirargli un pugno in faccia.

Feci i complimenti per la sua perdita di peso ad una affezionata cliente del negozio in cui lavoravo quando avevo vent’anni. Lei mi rispose che aveva il cancro. Lezione imparata.

[….]

Ho perso 30 libbre quando ho scoperto la dipendenza di mio marito. Gli/le amici/che mi chiedevano il “segreto per perdere peso”. Questo mi faceva sta male.

Stavo lavorando in un ristorante e i miei genitori sarebbero venuti spesso a mangiare. Mia mamma aveva perso molto peso a causa di quella che poi scoprimmo essere una valvola esofagea difettosa. Lei fece esami dopo esami e dopo aver perso circa 40 libbre eravamo preoccupati che si trattasse di tumore allo stomaco. Una mia superiore vide mia mamma una sera e mi disse che aveva un aspetto fantastico (era pelle e ossa) e io iniziai a piangere e dissi che la perdita di peso poteva essere segno di un cancro e lei replicò entusiasta “Vorrei avere il cancro!!!”

Ero molto magra durante un periodo di ansia intensa e disturbi ossessivo convulsivi. Non un bel modo per perdere peso.

[…]

Son sempre stata bene nel mio corpo, portata a valutare la mia intelligenza e personalità al di sopra del mio aspetto fisico. Non fu più così da quando persi 20 chili a causa di una brutta rottura, iniziai a capire le insicurezze sul corpo con cui convivevano le altre ragazze della mia età.
Avere delle ragazze che mi dicevano “sembri una modella” o che loro erano “Omiodio così gelose!” mi faceva sentire come se il mio corpo prima della perdita di peso fosse stato meno attraente. Ho sentito il bisogno di mantenere quel peso nonostante mi sentissi orribile e fosse assolutamente malsano. E’ solo per mostrare come una persona con una buona autostima e un’immagine positiva del proprio corpo possa essere abbattuta da degli “innocenti” commenti.

Mia mamma era solita indicare una persona grassa e dire “guarda che tu non sei grossa come lei” e pensava che questo fosse un complimento. Ero in forma e in salute in quel periodo ma tutto quello che diceva era “ti vedo grassa”. Ebbi un rapporto conflittuale con l’immagine del mio corpo per anni.

La moglie di mio padre mi diceva “sei ancora magra” tutte le volte che mi vedeva. Ho preso la decisione di non commentare l’aspetto fisico delle persone. Preferisco dire “è bello vederti”

[…]
Traduzione dell’articolo When “You look so skinny!” does more harm than good pubblicato su Beauty Redefined
Se queste osservazioni non sono abbastanza per convincervi che i commenti sull’aspetto fisico non sono utili, non sappiamo che cosa lo sia!
http://narrazionidifferenti.altervista.org/quando-sei-cosi-magrao-fa-piu-male-che-bene/

domenica 19 febbraio 2017

L’invisibilità delle donne di Chiara Saraceno

Quando le mie figlie avevano cinque anni mi chiesero di aiutarle a scrivere una lettera alla Rai perché si erano accorte che «al telegiornale parlano solo uomini e nei cartoni le donne o sono cattive o devono essere salvate da un uomo». A quasi quarant’anni di distanza le cose non sembrano cambiate di molto, nonostante oggi ci siano molte più giornaliste, anche nei telegiornali. L’ultimo esempio viene dall’iniziativa di un grande giornale nazionale.
Per festeggiare i propri 150 anni «La Stampa» ha chiesto a 51 «personalità di rilievo internazionale» di scrivere come vedono il futuro.
La prima cosa che balza all’occhio è che tra questi magnifici 51 solo quattro sono donne: le «ovvie» Angela Merkel e Hillary Clinton più Lindsey Vonn e Bebe Vio, due politiche e due sportive. Punto. Nessuna giornalista, scrittrice, economista, filosofa, scienziata, imprenditrice.
È normale che la scelta di chi selezionare per questo compito sia largamente discrezionale e guidata da criteri di notorietà. Meno normale è che ancora nel 2017, quando si individua tra «le personalità» cui vale la pena dar voce su come va o dovrebbe andare il mondo, si «vedano» pressoché solo uomini. Come se nulla fosse mutato in questi anni, come se le donne, salvo qualche rara eccezione, fossero sempre e solo in cucina o a fare i bassi servizi o la spalla a uomini potenti. Come se non avessero nulla da dire su questo mondo che, questo sì, è ancora troppo governato da uomini, con risultati certamente non ottimi. Me lo ha fatto rilevare indignata una mamma che avrebbe voluto utilizzare l’inserto per parlarne con i suoi bambini, un maschio e una femmina, e si rifiuta di proporre loro una immagine in cui quasi solo uomini sono presentati come importanti, e perciò degni di ascolto. Eppure non mancano donne «di rilievo internazionale» che potrebbero dire e dicono cose interessanti su molti aspetti del presente e del futuro: da Fabiola Gianotti ed Elena Cattaneo per la scienza, a Martha Nussbaum e Seyla Benhabib per la filosofia e la politologia, Christine Lagarde, Melania Mazzuccato e Loretta Napoleoni per l’economia, Svetlana Aleksievic e Alice Munro per la letteratura, Marissa Mayer e Sheryl Sandberg per il settore del digitale, Inge Feltrinelli per l’editoria – per fare solo alcuni nomi ovvi. Ma la lista sarebbe lunga.

Non si tratta di un banale infortunio. Piuttosto è la dimostrazione di quanto persista nel nostro Paese l’invisibilità delle donne nella scena pubblica quando si tratta di fornire analisi e dare opinioni. Chi controlla la comunicazione e quindi contribuisce alla narrazione e all’immagine della società è ancora in larga misura di sesso maschile. Anche se il 48% dei conduttori dei Tg in prima serata è donna, come documenta l’ultimo rapporto dell’Osservatorio di Pavia, le direttrici delle news si contano sulla punta delle dita e così le conduttrici di talk show non di intrattenimento. E uno dei ruoli in cui le donne sono meno visibili è proprio quello degli opinionisti, nonché dei portavoce di associazioni e partiti. Ad esempio, il 30% di donne in Parlamento scende al 17% di presenza in televisione. La figura dell’esperto resta un appannaggio quasi esclusivamente maschile. Solo come vittime o come rappresentanti dell’«opinione comune» (la «casalinga di Voghera») le donne trovano ampio spazio nella narrazione pubblica e in pubblico: sono il 51% fra le persone interpellate come voce dell’opinione popolare, il 45% dei narratori di esperienze personali, il 42% dei testimoni di eventi, e appaiono come vittime più del doppio degli uomini (16% rispetto al 7% degli uomini, nei Tg).
Va detto che l’Italia è in buona compagnia. Secondo i dati dell’Osservatorio di Pavia anche in Inghilterra, Francia e Germania le cose non vanno molto bene, ma stanno migliorando più in fretta che in Italia, dove la situazione sembra invece in stallo. Del resto, è passato del tutto sotto silenzio il fatto che l’AgCom, che dovrebbe controllare la correttezza dell’informazione, è composta esclusivamente da uomini. Difficile che si accorgano dello squilibrio di genere non solo in chi comunica ciò che avviene in società, ma in che cosa è comunicato.
Del resto, anche tra gli studiosi le cose non vanno molto meglio. Nell’Accademia dei Lincei le donne sono pochissime ed entrano con il contagocce. Non molto diversa la situazione nelle Accademie delle Scienze. Quando di tratta di riconoscere il merito e la qualità della ricerca, i guardiani dei cancelli sono sempre singolarmente ciechi rispetto al genere. Non perché non ne tengano conto, ma perché vedono quasi solo il proprio.
Per quella mamma indignata, come per me quarant’anni fa, la strada per comunicare ai suoi figli una visione diversa delle donne è ancora molto in salita.
http://www.rivistailmulino.it/item/3773

sabato 18 febbraio 2017

Ovaria, cura le donne dall’omosessualità: ma quando finisce il Medioevo?di Deborah Biasco

È proprio vero: non c’è mai fine al peggio. E l’assurdo escogita sempre qualche nuova strada per riproporsi, in maniera sempre più preoccupante. Se non stessi scrivendo utilizzando un computer, sotto la luce bianca di neon fissati sul soffitto di una biblioteca e con davanti agli occhi scaffali di libri catalogati segno del percorso storico, del cammino che abbiamo compiuto, potrei anche pensare di essere, di vivere nel Medioevo. Sembra addirittura che qualcuno ne avverta la mancanza… E che vi tenti un ritorno, con metodi e con pratiche diversi da quelli utilizzati durante l’epoca in questione ma con le medesime motivazioni e gli stessi obiettivi.

Libri, studi, manifestazioni, rivendicazioni, piccole conquiste, per poi sentir dire che in parafarmacia è arrivata Ovaria: “una pillola consigliata come rimedio alle irregolarità mestruali, disturbi del climaterio, deficit di memoria, depressione, disturbi funzionali delle ghiandole, complesso di inferiorità, criptorchidismo, enuresi notturna, impotenza, frigidità femminile, tendenze lesbiche, oligo e azoospermia, congestioni”.

Una pillola che cura le donne dalle loro tendenze omosessuali: devo continuare? Omeopatica, tra l’altro: inutile e inefficace.

Ovaria: la prova che non abbiamo mosso un passo, che siamo fermi e ferme sulla linea del Tempo, anzi lo spostamento che se ne deduce consiste in un retrocedere. Considerare l’omosessualità come una malattia da curare, non solo è segno di un pensiero retrogrado ma è anche segno di un progetto che non tiene minimamente conto della Persona e della sua intima realtà, quella che nessuno può intaccare né dirigere né cambiare.

“Come conferma anche il sito stesso della para-farmacia, il punto vendita romagnolo rientra nel dataset ministeriale, con l’elenco completo degli esercizi commerciali, diversi dalle farmacie, autorizzati alla vendita al pubblico di farmaci. L’ultimo aggiornamento dell’elenco è di oggi, 14 febbraio 2017“. Si tratta dello stesso ministro della salute che nel settembre scorso organizzò il Fertility day per suggerire un po’ di lavoro a tutti questi uteri pigri e cinici, giusto? D’altronde, cosa può venir di buono… Quale sarà la prossima mossa a carico delle Donne, della loro sessualità e delle loro scelte? Torneremo alle lenzuola sulla terrazza dopo la prima notte di nozze?

Paragonare l’omosessualità alle irregolarità mestruali come se questa fosse data da una disfunzione, da uno squilibrio presente nel Corpo o nello stato psichico delle Donne, come se fosse una triste conseguenza, un danno complesso a carico della Persona e della società. Come se fosse qualcosa di anomalo, di errato su cui intervenire, a cui rimediare, da curare. Come se fossimo nel Medioevo in cui la soggettività e l’originalità della Persona veniva additata e brutalmente condannata (e Giordano Bruno avrebbe da raccontare sul 17 febbraio del 1600). Come se non bastassero le ingiustizie e le sofferenze che Donne e Persone omosessuali subiscono, soffrono e di cui spesso, molto spesso, sono vittime. Ci si mette anche l’omeopatia…

“Io esisto come sono, questo è abbastanza“, diceva, dice Walt Whitman, al di là dei pregiudizi, al di là delle restrizioni, al di là delle finte innovazioni che non si allontanano di un passo da un passato crudele ed offensivo.

Esistere come si è, questo conta: e nessuna medicina, nessuna pillola può aiutare in questo come invece può riuscirci il sentirsi parte, parte unica ed insostituibile, della società in cui si vive.



FONTE: https://www.wired.it/scienza/medicina/2017/02/15/ovaria-rimedio-omeopatico-tendenze-lesbiche/?utm_source=facebook.com&utm_medium=marketing&utm_campaign=wired

http://www.ultimavoce.it/ovaria-la-pillola/

venerdì 17 febbraio 2017

Sciopero globale delle donne l’8 marzo: Non una di meno si mobilita di Nadia Somma



“Eravamo marea, ora siamo un oceano e nessuno scoglio ci potrà fermare”: l’assemblea plenaria di Nonunadimeno  si è conclusa con queste parole alle 16,45 di una domenica pomeriggio piovosa che non ha raffreddato le grida gioiose e gli applausi nelle aule di Giurisprudenza dell’Università di Bologna (foto). L’ingresso di via Belmeloro 14, la mattina di sabato 4 febbraio era affollato da centinaia di donne e uomini che per due giorni (il 4 e 5 febbraio) si sono confrontate e hanno discusso su otto tavoli tematici: lavoro e welfare, femminismo migrante, diritto alla salute sessuale e riproduttiva, educare alle differenze, percorsi di fuoriuscita dalla violenza, sessismo nei movimenti, narrazioni della violenza attraverso i media, piano legislativo e giuridico. Milleseicento attiviste hanno portato proposte, idee e progetti. Donne di ogni età, settantenni della prima ora del movimento e diciassettenni, insieme a donne delle altre generazioni si sono ritrovate ancora, grazie a quest’ultima straordinaria ondata femminista che non cessa di fluire. Alla faccia de “il femminismo è morto” o “il femminismo ha perso”, tormentoni ricorrenti negli ultimi vent’anni che ne cantavano il de profundis come se il movimento delle donne fosse impegnato in un match a punti. Le donne in movimento erano lì a ostinarsi nel tessere cambiamenti, giorno dopo giorno, in anni buoni e anni brutti.
Le due giornate bolognesi sono la prosecuzione di un percorso cominciato il 26 novembre scorso con la manifestazione che ha visto la partecipazione di oltre duecentomila donne e uomini a Roma e con la prima assemblea del 27 novembre svoltasi all’Università La Sapienza. Il Piano femminista contro la violenza che Nonunadimeno vuole costruire è contrapposto a quello varato dal governo nel 2015 (in scadenza il prossimo giugno) che non riconosce i saperi femministi e non valorizza  il ruolo politico dei Centri antiviolenza, parificati a qualunque altro servizio del privato sociale. Il Piano lascia saldo nelle mani del governo e delle sue amministrazioni, un ruolo centrale nelle politiche che troppo spesso impongono strategie di contrasto alla violenza di stampo ancora securitario, dirette a controllare le donne invece che a rafforzarle. I percorsi di uscita dalla violenza sono ancora difficili e complicati, la Convenzione di Istanbul resta lettera morta in molti dei suoi articoli e le istituzioni adottano ancora uno sguardo neutro sulla violenza che ri-vittimizza  le donne in una società ancora conservatrice e arretrata rispetto a quelle del nord Europa. I media non agevolano il cambiamento perché rappresentano in maniera distorta la violenza e i ruoli di genere e diventano megafono di stereotipi e sessismo.
Durante i tavoli si è parlato anche di povertà e di precariato, di diritti Lgbt e di discriminazioni verso le donne migranti, perché la violenza non è solo quella che avviene nelle relazioni di intimità: c’è la violenza di interventi politici che rispondono alla crisi erodendo diritti, tutele, welfare, dando per scontato che siano le donne con il loro lavoro di cura a sostituire politiche sociali assenti. E’ ancora violenza quella di Stati che costruiscono muri contro l’immigrazione o promulgano leggi per respingere e deportare. E’ ancora violenza quella di uno Stato che ha smantellato i consultori e continua a lasciare la legge 194 ostaggio dell’obiezione, cosiddetta “di coscienza”, che spesso cela l’ipocrisia di ginecologi che attuano una volontà di controllo dei corpi delle donne o sono mossi da opportunismi di carriera. Sono stati ancora molti altri i temi affrontati ma non è possibile elencarli tutti.
A Bologna è stato fatto il punto per la mobilitazione per lo Sciopero globale produttivo e riproduttivo delle donne in occasione dell’8 marzo, si tratta di una iniziativa che ha precedenti illustri e questa volta è stato lanciato dalle donne argentine (Niunamenos) che hanno ricevuto l’adesione di più di venti Paesi. Sabato hanno aderito anche le statunitensi che, dopo il successo della Women’s March contro il neopresidente Usa Donald Trump, continuano la loro lotta.
La prossima Giornata Internazionale della donna tornerà a essere un momento di mobilitazione femminista dopo anni di insignificanza che l’aveva trasformata in una ricorrenza di bisbocce tra amiche, streaptease maschili, mercatini di mimose col prezzo alle stelle, con uno sfruttamento commerciale dell’evento anche da parte di ristoranti e locali notturni. A breve, Nonunadimeno indicherà 8 punti per l’8 marzo che saranno il riferimento per l’organizzazione di mobilitazioni territoriali per aderire allo Sciopero globale delle donne. Ci sarà un’astensione reale o simbolica dal lavoro produttivo e riproduttivo e il coinvolgimento di donne dentro e fuori i luoghi di lavoro. Sarà una protesta attuata con modi anche inediti (ci saranno sorprese), durerà 24 ore, i suoi colori saranno il nero e il fucsia e il simbolo la matrioska di Nonunadimeno.
Fino ad oggi alcuni sindacati di base hanno aderito, ma hanno lanciato anche l’astensione dal lavoro per il 17 marzo nel comparto della scuola. Una scelta criticata da Nonunadimeno che ha invitato i sindacati di base, a ripensare la loro scelta facendo convergere le due date mentre la Cgil, che pure aveva sostenuto la manifestazione del 26 novembre, non ha ancora lanciato alcuno sciopero e si dubita lo farà anche per difficoltà, così dice il sindacato, di carattere organizzativo e tempi stretti.
Diamoci da fare perché tira una brutta aria. Donald Trump e altri leader con vocazione ultraconservatrice (tra cui non mancano donne come Marine Le Pen) cavalcano politiche reazionarie e  fondamentalismi di stampo misogino mentre innalzano muri e costruiscono nuove segregazioni. Contro questo backlash un femminismo internazionale attraversa i confini degli Stati e mira ad abbattere quei muri. Non illudiamoci, è una battaglia lunga e difficile. Si continua a tessere il cambiamento anche con lo sciopero globale dell’8 marzo. Le idee sono chiare cosa ci riserva il futuro un po’ meno.

In bocca al lupo a tutte.

giovedì 16 febbraio 2017

Corsico, flash mob contro la violenza Oltre cento le protagoniste di Francesca Grillo

Corsico (Milano), 15 febbraio 2017 -
Alcune erano arrivate preparate, con la coreografia imparata a memoria, passo dopo passo.
Altre si sono fatte trascinare dalla musica e hanno ballato, libere, sventolando sciarpe e fazzoletti rossi, il colore simbolo dell’iniziativa.
Una partecipazione intensa per celebrare un San Valentino speciale: oltre cento le protagoniste (ma anche tanti uomini e bambini) che hanno voluto dire no alla violenza sulle donne prendendo parte al flash mob mondiale One billion rising. Partito nel 2013 su iniziativa della scrittrice Eve Ensler, autrice dei Monologhi della vagina, anno dopo anno ha visto la partecipazione di milioni di persone in tutto il mondo.
Ieri la manifestazione è arrivata anche a Corsico, grazie all’iniziativa del gruppo Ventunesimodonna che ha riempito la piazza della Fontana dell’incontro di palloncini rossi e mimose gialle.
A partecipare anche alcune studentesse del liceo Vico di Corsico e altre associazioni del territorio che si battono per sensibilizzare sui temi della violenza sulle donne: Galassia, Itaca, Ilaria Alpi, Demetra, Sibilla Aleramo.
Al termine del ballo e della lettura di testi e poesie, le protagoniste del flash mob hanno chiuso l’evento con il suggestivo lancio di palloncini rossi.


domenica 5 febbraio 2017

La maternità è l’oppio delle donne di Erica Vecchione Ex casalinga e blogger

“La mamma è sempre la mamma”, mi ha risposto qualche giorno fa un’amica mentre parlavamo di figli e dell’essere genitore in generale. Nel sentire queste parole qualcosa ha stonato, ho avuto come la sensazione di aver portato a casa il premio di consolazione dopo una gara giocata al massimo. Intendiamoci, adoro i miei tre figli ma io NON sono i miei figli.
Saltiamo per un attimo l’omelia sulla maternità, sulla gioia ancestrale del grembo natio, sull’amore sconfinato nei loro confronti e concentriamoci su queste sei paroline che tanto piccole non sono. “La mamma è sempre la mamma” nasconde un concetto parallelo, è un panegirico solo in superficie.
In primis, estromette a priori l’altro 50%, dando per scontato che per qualsiasi contributo potrà dare, il padre non raggiungerà mai lo stato di grazia ottenuto dalla madre. E benché in giro ci siano ancora dei papà disinteressati e indifferenti a cui torna comodo demandare alla compagna, è altresì vero che ce n’è uno stuolo sempre maggiore che partecipa al pari della madre.
Nella mia famiglia è così, e non per questo mi sento destituita dal trono di madre ad honorem. Per alcune donne l’idea di dividere con il marito la “gloria” della crescita, i meriti, le attenzioni speciali dei figli è vista come una minaccia alla propria identità. Quasi come se tolti i figli non fossero nulla, non avessero nulla.
“La mamma è sempre la mamma” è il mantra da ripetere ogni qual volta un’opportunità lavorativa, sociale, di crescita individuale viene vista negata, rimandata a tempo indeterminato. Come dire: “va beh, ci sono sempre i figli a completarmi”. Fare la mamma assorbe come un lavoro ma NON è il lavoro.
Convincersi che essere madre venga prima di tutto, prima del padre, prima della propria soddisfazione personale, facilita il rinunciare al proprio posto nel mondo, come conseguenza di un ciclo connaturato e inevitabile. Quando invece il processo di insubordinazione si mette in moto, portando la donna al di fuori della materna investitura, il senso di colpa che scaturisce è grande. Non ho mai conosciuto una donna che, seppur soddisfatta della propria dimensione lavorativa, non dubitasse se stessa interrogandosi sul benessere dei propri figli.
In Italia una donna che sceglie di mettere carriera, ambizione o passioni prima della famiglia, o che addirittura decide di non riprodursi affatto, è giudicata da una parte della popolazione come un archetipo innaturale, una creatura fallata. Il ributtante aumento delle obiezioni di coscienza in tutta Italia ne è la prova. Un Paese dove quasi il 70% degli specialisti nega il diritto all’interruzione di gravidanza è un Paese che mostra l’attaccamento all’ideale di donna come madre generatrice, non di una donna emancipata che sceglie il proprio destino.
Legare la donna al figlio che andrà a partorire vuol dire incatenarla in una prigione dorata, significa promuoverla per rimuoverla.
Il problema è che la promozione porta a un corridoio lungo e stretto che non conduce a niente.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/02/04/la-maternita-e-loppio-delle-donne/3353956/

giovedì 2 febbraio 2017

Bisogna parlare del lavoro domestico non retribuito di Caterina Bonetti

Ormai da tempo, fortunatamente, si discute della disparità di trattamento economico delle donne rispetto ai colleghi uomini in molti settori della nostra economia. Alcuni paesi europei, come la Francia ad esempio, viene addirittura “celebrata” la data a partire dalla quale, nel corso di un anno, le donne incominciano a “lavorare gratis”.
Calcolando infatti la differenza in busta paga a parità di titolo di studio, mansione, orario, in 10 Paesi europei (fra i quali Regno Unito, Germania, Austria) le donne smettono di essere pagate per il loro lavoro a partire dal mese di giugno, in altri 15 (fra i quali Francia, Spagna, Norvegia) il mese di “passaggio” è novembre. Fortunate le italiane che, insieme alle colleghe di altri 6 stati (come Polonia e Belgio) lavorano senza stipendio solo a dicembre. A loro parziale “discolpa” bisogna anche calcolare il livello salariale e contrattuale medio dei paesi, ma non è questo ciò su cui voglio qui soffermarmi.
Questo è il dato emerso. Esiste poi un “sommerso”, un lato ancora più oscuro nell’universo del gender gap professionale: si tratta del lavoro non retribuito. Fanno parte di questo grande contenitore di tempo non riconosciuto né socialmente né economicamente gli interventi di cura della famiglia (figli, genitori anziani, disabili, persone momentaneamente o permanentemente non autosufficienti), della casa (pulizie, pratiche riguardanti la manutenzione e gestione, cucina, spesa, organizzazione “logistica” del ménage domestico), delle relazioni (i colloqui con i professori a scuola, con il personale del centro diurno, la gestione degli spostamenti – sport, parrocchia, bocciofila, corso di musica – di chi da solo non può andare). Occupazioni che, nella maggior parte dei casi, sono ancora interamente in capo alla donna.
Di lavoro non retribuito non si parla mai molto, forse perché culturalmente si considerano alcune attività come di “naturale” competenza di un genere, come se non si trattasse di un condizionamento sociale, ma di una spontanea manifestazione di una tendenza innata alla cura, un soddisfacimento di un bisogno relazionale, più che il mantenimento di un cliché estremamente funzionale. Non se ne parla perché parlarne e soffermarsi con attenzione sulle quotidiane competenze messe a servizio gratuitamente da una donna, che spesso ha già una sua occupazione “primaria”, metterebbe seriamente in discussione un sistema che da secoli si regge perfettamente sulla disparità.
Prendiamo un dato: in Italia una donna impiega in media 5,3 ore al giorno in lavoro non pagato, contro l’1,7 di un uomo. Non sempre questa “forbice” è dettata dal maggior tempo libero dall’impiego principale a disposizione della donna: molto spesso si tratta dello stesso monte ore a disposizione “fuori dall’orario d’ufficio” impiegato dalle donne per servizi di utilità e dagli uomini in attività legate ad interessi e bisogni personali.
Questo non vuol dire che gli uomini siano egoisti scansafatiche, ma semplicemente che ci siamo abituati a considerare normale il mancato riconoscimento del lavoro di cura, anche nel caso in cui sia un uomo a compierlo. Ai lavoratori non riconosciuti però viene almeno concesso un, pur piccolo, “riconoscimento” sociale: in fondo sono bravi a “occuparsi delle faccende” anche loro.
A fronte di un’analisi del dato di fatto per nulla confortante – e per questo rimando agli studi di Diane Rosemary Elson, economista e sociolga impegnata nello studio del rapporto genere/lavoro – viene spontaneo chiedersi: dopo un consolidamento delle abitudini secolare, è pensabile che un cambio di rotta sostanziale passi soltanto attraverso una riforma culturale?
La mia risposta è decisamente no. L’intervento sugli stereotipi di genere, nuovi modelli educativi, i percorsi di responsabilizzazione sociale rispetto ai ruoli di cura, possono fare molto, ma un buon risultato in questo senso resterebbe sempre e comunque parziale. Anche se si arrivasse infatti alla completa equiparazione delle responsabilità (cosa comunque ardua), resterebbe aperta una questione: il lavoro “non pagato” è lavoro? E se è lavoro perché non viene riconosciuto come tale e come tale tutelato?
Dal mio punto di vista il lavoro non pagato è lavoro a tutti gli effetti. Per quanto si possa voler bene a un genitore aiutarlo, da anziano, ad alzarsi e vestirsi o lavarsi è un lavoro. Un lavoro che per molti non rappresenta una scelta, ma un obbligo dato dal fatto che con la retribuzione offerta dal lavoro “vero” non risulta possibile affrontare la spesa di un aiuto domestico. E così ci si trova a lavorare due volte, tre volte, quattro volte tanto e a non avere tempo per vivere.
Considerando i dati italiani a una donna che lavora 8 ore al giorno, alle quali aggiunge 5 ore (per difetto) di lavoro non retribuito, restano 11 ore di “vita” al giorno. Eliminando le ore di sonno, circa tre ore al giorno. Sommando le ore settimanali a quelle del weekend, in media una donna “vive” per sé stessa, per i suoi interessi e passioni 8 giorni al mese. Fortunate le poche che svolgono almeno un lavoro gratificante!
Sarebbe tempo di provare a sperimentare, almeno nella teoria, modelli nuovi di relazione vita/lavoro che prevedano un riconoscimento – in termini economici o di tempo – del lavoro non retribuito. Un compenso più adeguato del lavoro “ufficiale” potrebbe permettere la spesa per i servizi di cura (generando fra l’altro ulteriore impiego). Un riconoscimento del tempo di cura (scelto e non obbligato), in termini di flessibilità oraria, ad esempio, garantirebbe una più equa distribuzione del carico di gestione familiare e, al contempo, un’immagine sociale del lavoro svolto decisamente differente rispetto a quella di un dato di fatto, a tempo perso.
Il tema è certamente troppo complesso per essere affrontato in pochi paragrafi, ma solo passando da una concezione assistenziale e di “concessione” nei confronti di determinate categorie o situazioni (es. permessi speciali, sostegno alle categorie protette) – che pure rappresentano un segno di civiltà e una conquista non da poco del recente passato – a una nuova concezione della distribuzione del tempo di lavoro e di vita, con un riconoscimento chiaro e preciso del lavoro non retribuito come lavoro a tutti gli effetti, riusciremo a modificare lo status quo e arrivare, forse a una società in cui si lavora per vivere, non si vive per lavorare, e con il lavoro ci si guadagna la possibilità per essere quello che siamo.
http://www.softrevolutionzine.org/2017/lavoro-non-retribuito/