mercoledì 31 gennaio 2018

Il part time involontario e le disuguaglianze sul lavoro: le donne pagate meno degli uomini Il part time involontario e le disuguaglianze sul lavoro: le donne pagate meno degli uomini

L’occupazione cresce e con 23,7 milioni di lavoratori abbiamo raggiunto il livello record degli ultimi 40 anni. Ma dentro i numeri ci sono differenze sostanziali: le donne, seppur più istruite, continuano a essere penalizzate : contratti a termine, demansionamenti e anche le metà ore «imposte»
I posti di lavoro in Italia aumentano e - in base al dato Istat di inizio gennaio - ci sono 23 milioni e 183 mila occupati: il record in 40 anni. Ma è tutto oro quello che luccica? Per le donne, questo «oro» luccica un po’ meno. L’Istat, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico e il World Economic Forum in tre report diffusi nell’autunno scorso hanno mostrato il lato oscuro del lavoro per le donne. «L’Italia - scrive l’Ocse - continua a registrare un tasso di occupazione femminile tra i più bassi dei Paesi membri». Secondo dati Istat, dal 1977 a oggi il tasso di occupazione è passato dal 33,5 al 48,1 per cento (gli uomini sono al 67,5 per cento), un livello lontano dal 61,6 per cento della media dei 28 Paesi europei e ancor di più dai record di Svezia (74,6 per cento ), Norvegia (71,9 per cento ) e Germania (71 per cento ).
Se e quando lavorano, le donne sono svantaggiate. Hanno più spesso contratti a termine in essere da almeno cinque anni (19,6 per cento rispetto al 17,7 per cento gli uomini), una busta paga più bassa e un livello di istruzione più alto di quello maggiormente richiesto per il lavoro svolto (25,7 per cento in confronto a 22,4 per cento gli uomini). E soprattutto è quasi tripla rispetto a quella degli uomini (rispettivamente 19,1 e 6,5 per cento) la quota di occupate in part time involontario. «Le aziende – dice Loredana Taddei, responsabile politiche di genere della Cgil – utilizzano la pratica del part time involontario, cioè mettere o assumere le donne a metà tempo, al posto del full time. E poi c’è il solito problema: la penalizzazione a causa della maternità, con le donne che di fatto rientrano demansionate o che sono costrette a dimettersi per accudire i figli».
La maternità continua a essere uno spartiacque. A causa degli scarsi servizi per l’infanzia - dice l’Ocse - il 78 per cento delle donne che ha rassegnato le dimissioni nel 2016 sono madri e il 40 per cento del totale delle domande ha avuto, come motivazione, l’impossibilità di conciliare il lavoro e la famiglia. In base a un rapporto dell’Ispettorato del lavoro nel 2016 sulle 29.879 donne che si sono licenziate, 24.618 hanno addotto motivazioni legate alla difficoltà di conciliare la vita privata con il lavoro. «Servirebbero aiuti fiscali per far restare al lavoro le donne e per pagare servizi di cura - spiega Paola Profeta, docente in Bocconi ed esperta di Economia e Politiche di genere- ma adesso paradossalmente gli incentivi funzionano al contrario: quando una donna lascia il lavoro ha diritto alla Naspi (Nuova assicurazione sociale per l’impiego, un’indennità mensile di disoccupazione, ndr). Poi c’è un tema di condivisione delle responsabilità genitoriali: oggi i congedi di paternità sono limitati a due giorni soltanto». C’è un altro dato da segnalare, dice Taddei: «Le donne sono più scolarizzate, ma sono impiegate nei lavori meno qualificati».
Infatti, alla voce «istruzione» la situazione si ribalta: nel nostro Paese le donne sono mediamente più istruite degli uomini. Se la quota di 30-34enni con un titolo di studio terziario è pari al 26,2 per cento, le donne sono al 32,5%, gli uomini al 19,9 per cento (dati Istat). «E il gap delle ragazze laureate in discipline tecnico-scientifiche tradizionalmente usato come indicatore dell’influenza di stereotipi di genere – ha osservato il presidente dell’Istat Giorgio Alleva - in Italia è più basso che in molti Paesi d’Europa».
Il World Economic Forum nella sua classifica sulla differenze di genere continua a far retrocedere il nostro Paese. Su 144 Paesi siamo scivolati in 82esima posizione, dalla 50esima del 2016 e dalla 41esima del 2015. Dopo anni in cui la disparità uomo-donna si stava assottigliando, nel 2016 l’Italia ha invertito la rotta: il gap, invece di ridursi come continua a fare nella maggioranze degli altri Paesi, aumenta e ci stiamo allontanando dalla parità. Il punteggio complessivo ottenuto dall’Italia - il Global Gender Gap score in cui 1 corrisponde alla parità e 0 alla massima disuguaglianza - nel 2015 era a 0,726, nel 2016 a 0,719 mentre nel 2017 è sceso allo 0,692. Quello che colpisce non è tanto la retrocessione in classifica, e quindi il paragone con gli altri Paesi, quanto il punteggio in sé: l’Italia peggiora anche nei confronti di se stessa. Che fare? Servono leggi. «Quella sulle quote di genere ha funzionato molto bene - commenta Paola Profeta - e le donne nelle posizioni di vertice in azienda sono arrivate al 30 per cento, mentre i Paesi che non hanno introdotto una legge sono rimasti indietro. In maniera spontanea non c’è cambiamento, si rischia di andare indietro».
http://www.corriere.it/buone-notizie/18_gennaio_25/part-time-involontario-disuguaglianze-lavoro-donne-pagate-meno-uomini-4acca2ec-01e1-11e8-9ff2-341a2fe0297c.shtml

martedì 30 gennaio 2018

Donne, se fate figli è un problema vostro ed è giusto che vi sottopaghino di Elisabetta Ambrosi

Nella comunicazione vige una regola aurea: se un commento, un articolo o un’esternazione sono troppo stupidi, patetici e soprattutto in malafede per essere commentati, la scelta migliore è lasciarli senza risposta, affinché cadano nel dimenticatoio il più presto possibile. L’articolo di Vittorio Feltri sui compensi delle donne e delle madri, pubblicato sul quotidiano Libero, rientrava senz’altro in questa casistica, con l’aggravante di una scrittura da bambino delle medie. Tuttavia, siccome il signore in questione, le cui argomentazioni sul rapporto tra i sessi e le donne hanno purtroppo grande seguito tra gli uomini, è il direttore di un giornale, nonché giornalista assai presente nelle trasmissioni tv, vale il caso di spendere qualche parola sulla sua complessa, sofisticata e brillante argomentazione. Che è la seguente: le donne guadagnano meno, ma il motivo è che fanno figli, e facendo figli si devono assentare dal lavoro e siccome quando si assentano dal lavoro non prendono soldi allora è normale che guadagnino di meno. In più, scrive l’acuta penna, fare figli non è un obbligo ma un hobby come coltivare le patate, per questo le donne – “matrone che sfornano figli” – non possono pretendere, se fanno bambini, di essere retribuite come gli uomini che fanno lavori “veri”, né tantomeno chiedere uno stipendio se vogliono fare le casalinghe. Fine del profondo ragionamento. Che imbarazzerebbe, quanto a connessioni logiche, e soprattutto informazioni sulla realtà, anche un’insegnante di una classe di adolescenti. Ah, dimenticavo, la base finemente filosofica del pezzo di Feltri è che “la natura non è democratica” e quindi le donne devono accettare le asimmetrie senza fiatare.
La prima riflessione da fare su questa non-riflessione è che ovviamente è in totale malafede. Com’è noto Feltri ha figli, maschi e femmine, e nipoti, e non crediamo, ma le interessate ci scrivano se sbagliano, che Feltri consideri le proprie figlie e nuore “matrone sforna figli” e che protesti vivamente, ad esempio telefonando ai loro datori di lavoro, affinché le sottopaghino rispetto agli uomini. Né crediamo consideri i propri nipoti meno che nulla, come invece sembra valutare i figli delle donne comuni, anzi probabilmente sarà un nonno che stravede per i suoi bambini, mentre sembra invece considerare ininfluente che esistano o non esistano i bambini di altri. È la solita miopia dei potenti, nella storia ce ne sono stati a milioni così. Affettuosi e amorevoli con i propri amati, sprezzanti verso il popolo senza nome né volto.
Ma veniamo all’ “argomentazione”. Non essendo ancora possibile per le donne autofecondarsi è del tutto evidente che un figlio si faccia in due. Ora non è chiaro perché la donna che deve portare avanti la gravidanza dovrebbe essere penalizzata a scapito dell’altro genitore che ci ha messo solo il seme. Il “ragionamento” di Feltri è che la natura è antidemocratica e che quindi bisogna accettare che chi porta la pancia sia penalizzato. Ma si tratta di una tesi che è eufemistico definire rischiosa. Se infatti vogliamo azzerare la scienza e la cultura, che servono appunto a compensare le iniquità della natura, proteggendo i più deboli e portando eguaglianza di diritti e di opportunità, dobbiamo immaginare un mondo selvaggio dove non esista alcuna legge né diritto, e il più forte prevalga sul più debole. Non credo che questo convenga al direttore di Libero, il quale, essendo anziano e dunque debole, sarebbe prontamente spazzato via dalla prima belva, ma che dico, belvetta. Viceversa si tratta del solito vecchio vizio di giocarsi le carte, in questo caso quella della natura, solo quando fanno comodo e sono a proprio favore, salvo riporle dentro la tasca quando invece potrebbero risultare scomode o a sfavore. Il meno che si possa dire è che si tratti o di ipocrisia o di ignoranza.
Ma parlando di ignoranza. A Feltri manca qualche elementare nozione di diritto del lavoro. Perché dovrebbe sapere che quando una donna va in maternità esiste un istituto di previdenza che paga il suo stipendio al datore di lavoro, mentre la donna riceve uno stipendio, sempre pagato anche con suoi contributi. Tutto questo serve proprio a garantire una continuità sia al datore di lavoro che alla donna, che quando ritorna dovrebbe trovare lo stesso posto e lo stesso stipendio di prima. Non è chiaro dunque perché la paga della donna che fa figli dovrebbe essere inferiore a quella di un uomo di identica mansione che i figli li fa, ma senza andare in maternità. O forse la carriera si gioca tutta in quei pochi mesi – trovatemi una donna che oggi va in maternità per anni – in cui una madre è assente? Invece Feltri ci dovrebbe spiegare, ma ovviamente non è in grado, perché a parità di mansione le donne, tranne che nei settori pubblici o molto protetti, guadagnino meno degli uomini, perché inoltre abbiano stipendi molto più precari, perché prendano pensioni ridicole in confronto a quelle degli uomini. E tutto questo,  anche senza figli (oggi una su due donne resta senza) o facendo uno – uno! – solo. L’unica spiegazione possibile è che le donne italiane sono penalizzate sui luoghi di lavoro esattamente in quanto donne, e non a caso tutti gli indicatori internazionali ci mettono agli ultimi posti quanto a gender gap (che per Feltri non esiste), retribuzioni femminili, povertà femminile e insieme, paradossalmente, numero di figli.
E veniamo all’ultima argomentazione. Da quanto dice Feltri, i figli in sé non sono un valore. Che ci siano o meno non cambia nulla. Che le donne li facciano o meno non cambia nulla. Sono un hobby come il suo, quello dell’orto, solo una questione privata. Evidentemente, il direttore di Libero ignora l’esistenza di una disciplina che si chiama demografia. E che misura la salute di una società proprio in base alla questione del ricambio tra generazioni. L’Italia è in una situazione gravissima, perché si trova in una sorta di piramide rovesciata, dove a pochi giovani corrispondono tantissimi anziani. Detto in soldoni, questo significa che tra poco per dieci anziani che prendono pensione e hanno bisogno di qualcuno che li curi ci saranno molti meno giovani di quelli che sarebbero necessari. Vorrebbe Feltri essere uno di quelli a cui non capita l’assistenza, e quindi rimanere sia senza pensione sia senza qualcuno che gli pulisca la bava quando non potrà farlo da solo? Non credo. Dovrebbe essere grato a quella donna che ha partorito quel figlio che presto lo imboccherà? Credo di sì. E credo, anzi sono sicura, che fare quel figlio non sia una questione privata, appunto, ma pubblica. Ma se è pubblica lo Stato deve mettere le donne in condizioni di fare figli, oltre che favorirle il più possibile quando intendano farlo, come d’altronde in tutti i paesi civili del mondo. E tutto questo solo da un punto di vista utilitaristico, al netto cioè della felicità che un figlio porta a livello individuale e collettivo.
L’ultima battuta è sul “lavoro vero”, l’unico che secondo Feltri dovrebbe essere pagato. C’è da chiedersi se sia più vero il lavoro di un giornalista che se ne sta comodo sulla sua sedia a scrivere commenti come questo, peraltro riccamente finanziato da fondi pubblici, o quello di una madre precaria che oltre a lavorare, magari andando alle sei del mattino a pulire le scale del Feltri-condominio, tira su due figli che presto saranno utili alla società. Ma su questo spero che i commentatori di questo blog non abbiano dubbi. Possiamo avere parere diversi sui ruoli dell’uomo e della donna e sulle istanze delle femministe. Ma dovremmo invece avere opinioni identiche sui deliri di un giornalista al quale bisognerebbe obiettare una cosa sola: mi scusi, ma lei che cazzo sta dicendo?
https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/01/28/donne-se-fate-figli-e-un-problema-vostro-ed-e-giusto-che-vi-sottopaghino/4118468/

lunedì 29 gennaio 2018

Chiara Saraceno: "La cultura maschilista prevale, l'Italia è impreparata a dare riconoscimenti alle donne qualificate" di Flavia Piccinni

La sociologa e filosofa parla ad HuffPost: "Stereotipi di genere rigidi, una divisione del lavoro famigliare asimmetrica, una cultura aziendale maschilista, politiche di conciliazione scarse o assenti"
"Siamo una società che invecchia e per questo poggerà sempre più sulle spalle di chi è in età da lavoro" esordisce così la sociologa e filosofa Chiara Saraceno, quando le chiedo degli squilibri che affliggono il nostro Paese. "Anche per questo – continua - il contributo dei migranti diventa fondamentale. Sono mediamente giovani, quindi in età da lavoro ed anche di fecondità, quindi in grado di contribuire doppiamente all'oggi e al domani della nostra società: nel lavoro e nella demografia. Perché questo contributo possa pienamente realizzarsi occorre che siano date ai migranti possibilità reali di integrazione, di riconoscimento e arricchimento del loro capitale umano, che ai loro figli vengano riconosciuti, se lo desiderano, i pieni diritti di cittadinanza". La riflessione di Chiara Saraceno ha aperto discussioni su più fronti, ed è ampiamente contenuta nel suo ultimo lavoro pubblicato per Laterza, L'equivoco della famiglia, nel quale ha indagato i limiti, i compromessi e il futuro dei nuclei famigliari italiani.

Nel suo ultimo saggio nota come "le politiche sociali per le famiglie concretamente esistenti sono molto scarse, con conseguenze gravi per il futuro di tutti". Ma a pagare il prezzo più caro non sono forse i giovani?
L'unica scelta politica fatta effettivamente in nome dei giovani, per non gravare eccessivamente su di loro, è la riforma delle pensioni. La più odiata non solo per il disastro degli esodati, ma perché ha allungato, forse in modo troppo semplicistico e soprattutto in modo più radicale per le donne che per gli uomini, il tempo del lavoro necessario prima di andare in pensione. Solo di recente è stato sollevato, dalla CGIL, il problema di quale pensione potranno avere coloro che sono oggi giovani e hanno carriere lavorative e contributive interrotte e povere. Ma questo tema non è al centro del dibattito politico e neppure della agenda elettorale dei vari partiti, tutti preoccupati di garantirsi il voto degli anziani, più numerosi.

Non è neppure al centro della mobilitazione giovanile.
Adesso i giovani sono giustamente preoccupati dell'oggi, dall'accedere a un lavoro che garantisca loro, prima di una pensione futura, un reddito decente e un orizzonte temporale abbastanza lungo per poter fare progetti di vita. Aggiungo che spesso il conflitto generazionale che si dà oggettivamente in società è composto in famiglia, nella misura in cui è spesso il reddito, inclusa la pensione dei vecchi, che consente ai giovani di reggere l'intermittenza delle occupazioni e/o di poter uscire di casa per formarsi una famiglia. Siamo al punto che oggi molti genitori che se lo possono permettere stipulano polizze per garantire una pensione integrativa ai figli o gli studi universitari ai nipoti. Rafforzando in questo modo la riproduzione intergenerazionale delle disuguaglianze. La sfiducia nella politica nasce anche da qui, dalla sensazione che si possa contare solo su soluzioni e risorse private, oltre che dallo spettacolo di trasformismi e conflitti che spesso poco o nulla hanno a che fare con la vita quotidiana e i bisogni dei cittadini, anche se spesso ne cavalcano gli umori e ne sfruttano il particolarismo.

A questo punto sembra che l'unico destino sia lavorare fino a 75 anni.
Premetto che fino a qualche anno fa, e per le persone della mia generazione (ultrasettantenne), lavorare fino a 75 anni era il privilegio di alcune professioni: i magistrati, i professori universitari. I vescovi, nella Chiesa cattolica, potevano rimanere a capo della loro diocesi anche oltre quell'età. Paradossalmente, al progressivo innalzarsi dell'età alla pensione di vecchiaia per motivi demografico-attuariali, che riguarda professioni meno prestigiose e sicuramente spesso fisicamente più faticose, si è accompagnata l'eliminazione di quel privilegio. Salvo farlo ritornare progressivamente come obbligo, man mano che si alza l'età alla pensione per tutti.

Qual è il suo punto di vista a riguardo?
Personalmente riterrei più sensato lasciare libertà di andare in pensione quando si vuole entro una finestra che definisca un minimo e un massimo e che tenga conto, per il calcolo della rendita, sia degli anni in più o in meno di godimento della pensione che prevedibilmente questa scelta comporta, sia delle speranze di vita in buona salute connesse a determinate biografie professionali, sia del lavoro di cura effettuato nel corso della vita. Bisognerebbe anche pensare per tempo a spostare lavoratori anziani da mansioni troppo faticose, e rischiose. Dovrebbe essere anche possibile una uscita "dolce", combinando un part time lavorativo con un part time pensionistico. Ma una società che complessivamente, in tutti i suoi attori, non riesce a produrre un contesto amichevole, stimolante, in cui le giovani generazioni - autoctone, migranti, straniere anche se nate qui – si sentano valorizzate e possano pensare il proprio futuro è destinata all'implosione.

Una situazione che penalizza ulteriormente le giovani donne.
Le difficoltà che queste condividono con i coetanei sono ulteriormente amplificate dal fatto che la società italiana, a tutti i livelli, è ancora singolarmente impreparata alla presenza di donne qualificate, che si aspettano di entrare e stare nel mercato del lavoro a pari condizioni con i loro coetanei, anche se e quando decidono di avere un figlio. Persistono stereotipi di genere rigidi, una divisione del lavoro famigliare asimmetrica, una cultura aziendale maschilista, politiche di conciliazione scarse o assenti.

Non è un caso che la maggior parte dei Neet siano donne che vivono nel Mezzogiorno.
Le donne sono diventate tra loro sempre più diseguali in base a caratteristiche personali. Le più istruite e che vivono nel Centro-Nord, per quanto ancora discriminate rispetto agli uomini loro pari, hanno infinitamente molte più possibilità di affermazione e di conciliare, se lo desiderano, lavoro e famiglia delle meno istruite, specie se vivono nel Centro-Sud. Ciò dovrebbe sollecitare un'attenzione per politiche che colmino il divario, in termini di investimento, nell'istruzione, in servizi per l'infanzia e per la non autosufficienza, cruciali per chi non può permettersi il costo del mercato, in politiche del tempo di lavoro.

Qual è la risposta della politica?
Purtroppo, sia nel governo Renzi, che ha avuto il maggior numero di ministre, sia in quello Gentiloni, questi temi, già appannati nei governi precedenti, sono ulteriormente stati spinti fuori dall'agenda e dal dibattito pubblico, in una sorta di azzeramento delle consapevolezze acquisite. Anche nel dibattito attorno al jobs act e alla folle precarizzazione indotta dal decreto Poletti sui contratti a termine, il costo specifico che questi provvedimenti hanno per le giovani donne è stato poco o per nulla messo a fuoco nel dibattito politico e sindacale. Per non parlare del fatto che su questi temi non si è mai sentita la voce della sottosegretaria con delega alle pari opportunità.

Perché le donne non riescono a individuare obiettivi comuni?
Le donne non sono mai state uguali, omogenee tra loro, come per altro gli uomini. Ciò che le accumunava e tuttora in larga parte le accomuna è l'asimmetria di potere rispetto agli uomini e il fatto che la loro appartenenza di sesso possa essere utilizzata per discriminarle, per far loro violenza, per sminuirle. Nessun uomo viene aggredito o sminuito in quanto uomo. L'insulto più sanguinoso, da un punto di vista maschilista, è quello di essere omosessuale, cioè "non un uomo vero". Invece una donna, anche di potere, può sempre essere attaccata come tale, che sia brutta o bella, giovane o vecchia, vestita in modo seducente o castigato.

Secondo un recente sondaggio un italiano su due ha paura dell'avanzata fascista. Ci stiamo riscoprendo un paese fascista?
Forse il fascismo, le idee del fascismo, non ha mai perso il suo fascino presso una parte della popolazione. L'idea di una superiorità razziale, e fortemente maschilista, della legittimità dell'uso della violenza per imporla, l'individuazione di capri espiatori, il sentirsi forti perché parte di un gruppo con regole e rituali pseudo-militari ha continuato ad avere un'attrazione presso alcune fasce della popolazione.

Esiste però una legittimazione inedita.
La novità è proprio che oggi i gruppi che organizzano queste persone si sentono legittimati a farsi valere esplicitamente, e ad occupare uno spazio pubblico. Da non sottovalutare il rancore e l'insoddisfazione diffusi tra individui e gruppi che si sentono tagliati fuori dal benessere e dal riconoscimento, e sono alla ricerca sia di vittime sulle quale far valere la propria superiorità, sia di capri espiatori cui attribuire la colpa della propria condizione. La presenza di immigrati, la cattiva gestione che se ne è fatta concentrandoli nelle periferie più disagiate, ha offerto una opportunità per entrambi questi obiettivi. Non credo che dobbiamo temere un ritorno del fascismo inteso come regime politico. Ma non siamo vaccinati rispetto a modelli culturali e atteggiamenti di tipo fascista.

E razzista?
Ci si può chiedere se ci sia mai stato un periodo in cui il razzismo non è stato presente in Italia. Verrebbe piuttosto da osservare che, di volta in volta, ha cambiato obiettivo. La facilità con cui la maggior parte della popolazione ha assistito alla persecuzione contro gli ebrei, il razzismo nei confronti delle popolazioni indigene all'epoca delle conquiste coloniali, la virulenza, ed insieme la sistematica gerarchia del disprezzo nei confronti dei vari gruppi di stranieri ed etnie con i rom, i neri e i mussulmani all'apice, sono testimoni del fatto che il razzismo è un atteggiamento latente che, appena trova un bersaglio, riemerge.

Questo cosa significa?
Ciò non vuol dire che siamo tutti razzisti e forse neppure la maggioranza. Ma che non possiamo illuderci di esserne protetti. E che razzismo non è solo quello dichiaratamente tale, ma quello, molto più diffuso, che si nasconde dietro il "io non sono razzista, però...". Dove anche legittime preoccupazioni o critiche dei comportamenti di qualcuno diventano quasi automaticamente generalizzazioni nei confronti di interi gruppi individuati (e spersonalizzati) in base ad una caratteristica particolare: il colore della pelle, la religione, la storia migratoria.

Dopo il biotestamento, e il fallimento dello jus soli, qual è secondo lei il prossimo obiettivo da conquistare?
È una vergogna che lo jus soli/jus culturae sia stato abbandonato. Ma anche la trasmissione del cognome materno accanto a quello paterno e non in alternativa, o solo su richiesta, ma proprio come meccanismo di default. E il riconoscimento della filiazione delle coppie dello stesso sesso: non la step child adoption, che è un atto successivo e richiede che passi del tempo, ma il riconoscimento della bigenitorialità all'atto della nascita. È un diritto dei bambini, prima che dei genitori.
http://www.huffingtonpost.it/2018/01/23/chiara-saraceno-la-cultura-maschilista-prevale-litalia-e-impreparata-a-dare-riconoscimenti-alle-donne-qualificate_a_23333725/

domenica 28 gennaio 2018

ANARCHICA FEMMINISTA PARTE PER LO SPAZIO di Clelia Farris (Toponomastica femminile, Cagliari)

Ursula Le Guin ci ha lasciato. Si annoiava a vivere in questo prevedibile pianeta in cui gli oggetti cadono verso il basso e gli idioti salgono verso l’alto – in certi paesi diventano addirittura presidenti – e ha pensato bene di scappare su un altro pianeta.
Come i suoi personaggi, irrequieti, curiosi, pieni di domande, anche la scrittrice doveva sentirsi fuori posto in un luogo dove le donne sono insultate, denigrate, uccise ogni giorno.
Probabilmente la sua nuova destinazione è un luogo simile al pianeta Anarres, comunità anarchica fondata da Odo, una donna. Molti filosofi e scrittori hanno immaginato società in cui non esiste la proprietà privata, il lavoro di cura è svolto da uomini e da donne e l’essere umano rispetta l’ambiente naturale, ma per Le Guin solo una donna può realizzarla.
Anarres è la società (quasi) felice al centro del suo romanzo I reietti dell’altro pianeta, e nel saggio La necessità del genere Ursula Le Guin ha sostenuto che “il principio femminile è, o almeno è stato nella storia, fondamentalmente anarchico. Tale principio valorizza l’ordine sociale senza che vi sia coercizione e si contrappone al modo autoritario e gerarchico di amministrare i rapporti umani.”
Tuttavia alla scrittrice non sono sfuggiti i limiti della teoria anarchica.
Nella (apparentemente) perfetta Anarres c’è una mutazione negativa: gli scienziati e gli artisti non sono più in grado di generare il nuovo.
Una stasi molto simile a quella dell’odierna società occidentale, nella quale si procede rimasticando il già fatto, senza trovare una via diversa, uno sguardo altro che conduca alla nuova società.
Avremmo bisogno anche noi di una Odo che ci indichi la via.
O forse ce l’abbiamo.
L’utopista si è incarnata nelle donne dei nuovi movimenti, #metoo, #timeup, in Italia #quellavoltache. Nelle donne che si avvicinano, si prendono per mano, provano a immaginare un mondo nuovo, un mondo diverso.
L’immaginazione, la facoltà più umana di tutte, è il sostrato naturale delle idee. “Con l’immaginazione”, sottolinea Le Guin, “si può arrivare a formulare la teoria della relatività e si possono mettere le basi di una società nuova.”

In un’intervista del 2004, rilasciata alla rivista Anarchy, le viene chiesto se riscriverebbe oggi I reietti dell’altro pianeta, e lei risponde “le mie idee in fatto di anarchia non sono cambiate, ma lo sono io. Un romanzo è fatto di idee, belle, solide, durature, ma anche di corpo, e i corpi sono anarchici e inaffidabili.”
In poche righe i capisaldi del femminismo ci sono tutti: abbattere l’autoritarismo, confidare nelle idee ma tenere in considerazione il corpo.

I corpi, maschili e femminili, sono al centro dell’altro suo più famoso romanzo La mano sinistra delle tenebre, nel quale prova a immaginare una società senza sessismo. I suoi membri non sono né maschi né femmine, assumono l’uno o l’altro sesso in modo casuale per cinque giorni al mese, dopo di che ritornano neutri.
Romanzo ambizioso e affascinante, che tuttavia non riesce a descrivere appieno la pretesa neutralità sessuale dei suoi personaggi, e questo, secondo me, prova l’indissolubile legame col sesso al quale siamo socializzati dalla nascita, l’impossibilità di saltare oltre la nostra ombra. E tuttavia, aver tentato una strada così ardua va ascritto al merito di Le Guin.
A questo punto non ci resta che portare avanti la rivoluzione femminista e cercare un radiotelescopio con cui lanciare un messaggio nello spazio: Ursula, torna, siamo cambiati!
http://www.dols.it/2018/01/26/anarchica-femminista-parte-per-lo-spazio/

sabato 27 gennaio 2018

Noi, a prescindere dalla nostra appartenenza politica, siamo tutte Laura Bodrini.


Siamo tutte Laura Boldrini




Laura Onofri
Non possiamo che esprimere il nostro sdegno per quanto accaduto ieri a Busto Arsizio, dove alcuni giovani leghisti hanno dato  fuoco a un fantoccio che voleva rappresentare Laura Boldrini.
Non si tratta di ‘una sciocchezza’ , nè di  una goliardata giovanile, ma di un atto fascista e misogino pericoloso e  conseguenza della politica maschilista e razzista portata avanti in questi anni dalla Lega e dal suo segretario.
La violenza simbolica e verbale che il centrodestra, la Lega  e il Movimento 5 stelle hanno esercitato  nei confronti di Laura Boldrini in questi cinque anni di legislatura non ha precedenti ed è la fotografia di quanto questi partiti siano ancora profondamente maschilisti e convinti  di una presunta superiorità dell’uomo nei confronti della donna.
Laura Boldrini, non è solo una donna, ma è una donna forte, libera e indipendente: queste qualità sono insopportabili agli occhi di chi è portatore di una cultura sessista e fallocentrica.
Le donne ne devono essere consapevoli, ancor di più in questo momento in cui fra poco saremo chiamate a votare i nostri  e le nostre rappresentanti in Parlamento.
Noi, a prescindere dalla nostra appartenenza politica,  siamo tutte Laura Bodrini.

http://www.senonoraquando-torino.it/2018/01/26/siamo-tutte-laura-boldrini/

venerdì 26 gennaio 2018

Reinventarsi la paternità di Annina LubbockMarco Deriu

Non è vero che i padri non si mettono in gioco, alcuni hanno tutto il desiderio di vivere appieno l'esperienza della genitorialità e di condividere la cura dei figli
Cosa sta cambiando nell’esperienza della paternità in Italia? Anche se più lentamente rispetto ad altri paesi sembra proprio che inizi ad affermarsi un modello di paternità differente dal passato, più impegnato e presente nelle responsabilità genitoriali. È quanto emerge dall’incontro La reinvenzione della paternità che si è svolto a Parma a settembre[1] e che oltre all’intervento di noti studiosi della paternità[2] ha ospitato, in uno spazio che includeva genitori e bambini, una sessione in cui associazioni e servizi hanno condiviso le loro esperienze e i loro progetti. In particolare, la seconda giornata ha visto una sessione di lavoro dedicata a concordare azioni comuni per far avanzare l’agenda della "paternità partecipe", fra queste la discussione per l’adesione alla piattaforma europea sui congedi[3]. 
Il modello di famiglia – culturalmente dominante negli anni del dopoguerra fino agli anni sessanta – basato sulla rigida divisione di ruoli fra padre breadwinner e madre caregiver, era un modello che – hanno notato alcuni relatori – dava sicurezza; abbassava l’età del matrimonio e aumentava la fecondità. Il modello si incrina per effetto del generale mutamento economico e sociale, l’emergere di nuove aspettative delle donne e delle madri e il contestuale crescere dell'occupazione femminile, ma anche per effetto del desiderio di un numero crescente di uomini di investire nella costruzione di spazi di intimità e di cura. L’abbassamento della natalità, l’innalzamento dell’età in cui si diventa padri, una diversa aspettativa di maggiore condivisione dei ruoli, iniziano a cambiare il modo di vivere la paternità. Le coppie sono ora più instabili e i modelli familiari e relazionali si fanno più complessi. Diversamente che in altri paesi, dove sono state fatte negli anni compagne nazionali sulla paternità, il cambiamento in Italia non è spinto e supportato da un’azione pubblica sul piano culturale e delle politiche - ma avviene in modo spontaneo dal basso, anche se un po’ a chiazze, qua e là, nel territorio nazionale.
A fronte dei cambiamenti in atto nel ruolo paterno, la discussione pubblica – ma anche le rappresentazioni cinematografiche – hanno dato tuttavia più attenzione alla 'crisi del padre' alludendo a un indebolimento del ruolo paterno, piuttosto che al delinearsi di nuove figure positive di padre e all’affermarsi di nuove relazioni, più paritetiche. "Massacrante ma meravigliosa" è stata definita da uno dei padri presenti l’esperienza della paternità "impegnata" (engaged).  Gli uomini – si è detto – devono fare i conti con le paure e le incertezze, essere in grado di "ospitare sensazioni caotiche" dentro di sé. Sono state messe in discussione le presunte dicotomie fra "famiglia fondata sulle regole" e "famiglia fondata sugli affetti", nonché fra "autorità senza intimità" e "intimità senza autorità"; la capacità di dare regole, ruolo che tradizionalmente era attribuito al padre, si è detto non è inconciliabile con l’affettività e l’intimità. Occorre ricercare e costruire un’altra prospettiva quella di una "pacata risolutezza" o di una "risolutezza senza violenza".
Gli studiosi intervenuti hanno riconosciuto che le soggettività delle esperienze legate alle nuove paternità devono essere messe al centro della ricerca. Occorre quindi mettere a fuoco cosa avviene nei momenti di crisi – nascita, separazioni, adolescenza – ed anche avere un’attenzione speculare ai cambiamenti nei ruoli materno e paterno e nelle relative responsabilità. In generale, insomma, si rileva la necessità di più sistematiche ricerche empiriche, condotte su campioni rappresentativi e con metodi rigorosi.
Sia nelle analisi degli studiosi che negli interventi degli attori sociali e istituzionali è emerso comunque il permanere di una certa ambivalenza nei padri di fronte alle nuove responsabilità genitoriali. Per alcuni, il lavoro è una via di fuga da un ruolo la cui gestione è molto complessa. In altri casi abbiamo padri che si impegnano un po’ di più ma rimangono in un ruolo secondario e accessorio rispetto alle madri. Viceversa, ci sono padri che sono in congedo, o fanno da genitore primario. Vi sono i padri "partecipi" che spesso si scontrano con datori di lavoro poco rispettosi delle esigenze di un genitore, specie se uomo. Il cambiamento del ruolo paterno – e specularmente di quello materno – dunque, è in corso, ma resta incompiuta la metabolizzazione o l’istituzionalizzazione di ciò che significa essere un "buon padre".
Queste incertezze sono lo specchio anche di una difficoltà più generale delle famiglie oggi. I servizi e i centri che fanno counseling alle coppie o agli uomini, hanno parlato di insicurezze e sensi di impotenza dei genitori, di difficoltà a porre le regole. Hanno sottolineato l’importanza dell’educazione dei futuri padri nelle scuole, e dell’educazione emozionale anche per i genitori.
Importanti sono le esperienze di condivisione fra padri, rappresentate dai "circoli di papà" presenti al seminario, i quali hanno però rilevato la difficoltà di ottenere e sostenere nel tempo la partecipazione dei padri. Per molti padri è infatti difficile combinare lavoro fuori casa e lavoro di cura e aggiungere pure l’impegno associativo e pubblico sulla paternità. Al seminario c’è stato un utile scambio di idee fra gruppi  su come facilitare la partecipazione dei padri. È stato notato che la disponibilità a farsi coinvolgere, ma anche la domanda di aiuto, aumenta nei momenti di crisi – la nascita, il conflitto familiare o la separazione – e quando i figli sono adolescenti e propongono un confronto e anche un conflitto per far spazio al loro futuro.
È abbastanza diffusa nella pubblicistica l’idea di una presunta difficoltà degli uomini a "mettersi in gioco" e ad esternare le loro emozioni. I racconti dei partecipanti, soprattutto di chi è in contatto diretto con i padri, vanno in senso opposto: i padri desiderano uscire dall’invisibilità e condividere le loro emozioni e le loro difficoltà, ma hanno bisogno di poterlo fare in spazi sicuri, confrontandosi con altri padri. In presenza delle madri, percepite spesso come più esperte e che tendono a volte a dominare lo spazio genitoriale, i padri parlano con minore libertà. I servizi per le famiglie hanno raccontato di padri mandati controvoglia dalle madri agli incontri, di madri che si presentano agli incontri per genitori senza i padri, ritenendoli non interessati. E di padri che invece – con lo stupore delle loro compagne – finiscono per coinvolgersi, anche in modo intenso. È il caso per esempio delle esperienze di quegli asili nido che hanno organizzato incontri per soli papà, molto apprezzati e frequentati. Si è convenuto in effetti che l’asilo nido costituisce un eccellente osservatorio dei cambiamenti nelle famiglie. Un altro luogo in cui occorre cercare di intercettare i padri sono i corsi di preparazione alla nascita.
Insomma, i padri si "mettono in gioco" e si impegnano quando lo possono fare in tempi e luoghi appropriati. È importante che questo sforzo di costruire nuove paternità sia accompagnato socialmente e politicamente poiché, come è stato notato, la paternità è a tutti gli effetti una conquista sociale e di civiltà e non un dato di fatto che può a un certo punto essere dato per scontato.

[1] L’incontro La reinvenzione della Paternità organizzato dal Centro Interdipartimentale di ricerca sociale (CIRS) dell’Università di Parma, dal Comune di Parma, dalla rete "Il Giardino dei Padri", e dalle Associazioni “Cerchio dei papà” e “Maschi che si immischiano”,  si è tenuto il 22 e 23 settembre 2017 a Parma. Il seminario ha riunito – con una formula inconsueta e assai produttiva – studiosi, istituzioni e soggetti della società civile.
[2] Relatori dell’incontro: Paola Corsano, Martina Giuffré, Alessandro Volta, Guido Maggioni, Sveva Magaraggia, Marco Deriu, Ivo Lizzola, Arnaldo Spallacci, Luisa Stagi, Luigi Zoja e Annina Lubbock.
[3] Agli interventi degli studiosi ha fatto seguito, in uno spazio che poteva ospitare genitori e bambini, una sessione in cui associazioni e servizi hanno condiviso le loro esperienze e i loro progetti. Tra i partecipanti: Cerchio dei Papà, Il Centro per le Famiglie del Comune di Parma, la rete il Giardino dei Padri, il Cerchio degli Uomini di Torino, Maschile Plurale, White Dove di Genova, l’Istituto di studi sulla paternità (ISP), Maschi che si immischiano, Papà al Centro, Piano C - Diamo voce ai papà, il Centro per le Famiglie dell’Unione Colline Matildiche, la coordinatrice pedagogica del Comune di Langhirano, il vice consigliere alla parità della Provincia di Modena e l’animatore del il Blog "Professione Papà".

http://www.ingenere.it/articoli/reinventarsi-la-paternita

mercoledì 24 gennaio 2018

Non fare figli non è una colpa, essere sottopagate sì DI CRISTINA DA ROLD

La situazione fotografata da un rapporto sul gender pay gap sui redditi dei professionisti italiani, dipendenti e freelance è desolante. Nel 2016 una donna ha guadagnato quasi la metà rispetto a un uomo. Ma ancora ci si stupisce che non tutte vogliano diventare madri
In molti si sono indignati nei giorni scorsi all'uscita di alcuni dati Istat che hanno sottolineato un nuovo record per l'anno appena trascorso: quasi la metà delle donne fra i 18 e i 49 anni, cioè in età potenzialmente fertile, non ha dei figli.
Non serve dirlo, il tono con il quale la notizia è stata diffusa sui media è stato ancora una volta di sgomento giudicante: troppe donne oggi preferiscono posticipare la maternità per poter consolidare la propria posizione lavorativa dopo anni di studio, di specializzazione. Un posticipare che “spesso si traduce in una rinuncia”, ha scritto qualche esperto. Senza considerare che i figli non li fanno solo le donne ma le coppie, nella maggior parte dei casi.
Ancora una volta il messaggio fra le righe è che queste donne sono colpevoli di non aver fatto tutto ciò che avrebbero potuto fare, invece di cogliere l'occasione per parlare di lavoro e del fatto che oggi una donna con meno di 30 anni che inizia un percorso professionale da professionista guadagna il 10% in meno di un suo collega uomo. Gap che fra i 30 e i 40 anni – che per la donna non sono solo gli anni cruciali per la maternità ma anche per l'avviamento di una professione – diventa del 27%. Oggi in Italia una professionista di 35 anni guadagna un terzo in meno rispetto al suo collega di scrivania. Fra i 40 e i 50 anni il gap è ancora del 23%.
Inoltre, anche tralasciando le differenze di genere e facendo un discorso più generale, dal momento che come si diceva i figli non li fanno le donne ma le coppie, oggi un giovane professionista (uomo o donna) fra i 30 e i 40 anni guadagna il 36% rispetto a un uomo fra i 50 e i 60 anni (la generazione dei cosiddetti Baby boomers, i nati negli anni Sessanta). Per gli under 30 la situazione è ancora più desolante, con stipendi pari a un quinto di quelli dei loro genitori.
La situazione la fotografa l'ultimo rapporto di AdEPP (Associazione degli Enti di Previdenza Privati) che ogni anno raccoglie i dati sui redditi dei professionisti italiani, dipendenti e freelance, non solo di giovani medici, giovani avvocati, giovani giornalisti, ma di qualsiasi professione sia regolamentata oggi da un albo professionale e quindi abbia una cassa di previdenza di categoria. Va detto dunque che questi dati non comprendono i professionisti più sfortunati, quelli talmente atipici da non rientrare in alcuna professione riconosciuta, e che versano i loro contributi all'INPS Gestione Separata.
Tornando al gender gap, il primo dato che salta all'occhio è appunto la differenza di reddito medio complessivo del 2016: 40 mila euro per gli uomini e 23,5 mila euro per le donne. Stiamo parlando di quasi la metà del guadagno rispetto a un uomo, e di un reddito pari a circa 2000 euro lordi al mese, che oggi in Italia significano tutt'altro che serena indipendenza. Non si può non pensare che una delle ragioni preponderanti di questo gap, in particolare fra le libere professioniste, possa essere la mancanza di strutture di sostegno alla maternità che fa sì che le donne semplicemente possano dedicare meno tempo alla loro libera professione.
Una distinzione d'obbligo poi è quella fra professionisti dipendenti e liberi professionisti: i primi sono riusciti in qualche modo a tenere le redini negli anni della crisi, mentre i secondi sono andati impoverendosi. Fra le due categorie oggi c'è un abisso: un professionista assunto (un avvocato in uno studio, un giornalista in una redazione) guadagna in media il doppio rispetto ai colleghi liberi professionisti. Guardando le serie storiche degli ultimi anni notiamo che il reddito reale (cioè il potere d'acquisto considerato un dato paniere di beni e servizi) dei professionisti dipendenti nel 2016 è cresciuto dell'8% rispetto al 2005, mentre quello di un libero professionista è calato del 18%.
Senza una svolta nelle politiche sul sostegno alla maternità che facilitino la prospettiva di vita di una donna fra i 30 e i 40 anni, non possiamo stupirci che molte donne scelgano di non diventare mamme. Ci rallegriamo per i dati che ci raconta ogni anno Almalaurea, che vedono sempre più donne laureate e specializzate, future professioniste, ma alle strette di mano troppe volte non seguono sostegni concreti.
Così come – d'altro canto – dovremmo forse iniziare a considerare la possibilità che non tutte le donne desiderino diventare madri, al di là del gender pay gap. Che molte preferiscano vivere una vita diversa, e smettere di sottointendere che in qualche modo la scelta di essere fertile e non madre sia una rinuncia.
http://espresso.repubblica.it/attualita/2018/01/16/news/non-fare-figli-non-e-una-colpa-essere-sottopagate-si-1.317095

martedì 23 gennaio 2018

Molestie: sotto accusa gli abusi sul lavoro, non la sessualità. Ma in Italia non se ne parla STEFANIA PRANDI

Molestie: una donna e un uomo discutono di lavoro
Che cosa c’è di romantico in un uomo che si masturba di fronte a te, senza che tu gli abbia dato il consenso, in una stanza dove si sarebbe dovuto parlare di lavoro?
Quanto è seducente un capo che ti chiede di andare a letto con lui e se non ci stai non ti assume, ti demansiona, ti licenzia?
Cosa c’entrano le avances non richieste e i ricatti con il corteggiamento e la seduzione?
Il dibattito sulle molestie cominciato dopo il caso Weinstein, il produttore di Hollywood accusato di abusi, ricatti e stupri da più di cento donne, sta diventando un’arena caotica. Non ci sono soltanto Catherine Deneuve e le altre novantanove firmatarie della lettera pubblicata a creare confusione, ma chiunque si senta autorizzato e autorizzata a commentare a casaccio, usando termini come vittimismo, caccia alle streghe, neomaccartismo.
Il problema di fondo, come fanno notare opinioniste e attiviste inglesi e americane (Jessica Valenti, per citarne una), è che nel dibattito non ci si basa (volutamente) sui fatti. Infatti, in causa, in questa vicenda, non ci sono innocui flirt, seduzioni consenzienti, corteggiamenti, ma abusi. Di questo si sta discutendo.
Negli Stati Uniti, stanno saltando fuori altri nomi dal mondo dello spettacolo, della moda, del giornalismo, abusatori seriali e sistematici, di donne e uomini. Per quanto riguarda il mondo dei media, in rete gira da mesi The Shitty Media Men, una lista, ancora non pubblicata dai giornali, con nomi e cognomi di caporedattori e direttori molestatori, con accuse, testimonianze e prove.
Si raccontano episodi di violenza anche nelle migliaia di #metoo che sono circolati in rete. Me too, anche a me, scrivono donne di diverse età, provenienza sociale, origine geografica, sui social. Il centro del dibattito resta il lavoro, quel mezzo che serve a chiunque non abbia una rendita familiare o non abbia vinto alla lotteria o a qualche altro premio, per vivere. Quel mezzo che, nel sistema in cui viviamo, serve anche per affermarsi. È facile e comodo distruggere a parole, dall’alto di pulpiti protetti, quanto sta succedendo.
L’hastag #metoo è circolato soprattutto in inglese. In italiano c’è stata l’iniziativa di Giulia Blasi con #quellavoltache, campagna a cui ha aderito anche Pasionaria. In pochi giorni dal lancio sono arrivate migliaia di adesioni. In Italia, però, per il momento, si è persa l’occasione per un dibattito serio, che entri nel merito.
Le accuse di “vittimismo”
Vittima è la parola critica(ta) quando si parla di molestie, usata spesso con disprezzo, come se fosse sinonimo di debolezza. Non mi sembrano però deboli le donne che raccontano quello che subiscono. Come scrive l’etnologa Paola Tabet nel saggio Le dita tagliate (Ediesse), la violenza non è un fatto individuale, ma è un prodotto della società, è uno dei meccanismi sociali decisivi per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini.
Negare l’esistenza dell’oppressione, significa negare l’evidenza, gli abusi che le donne subiscono e che si traduce, in numeri, con gli indici della disparità di genere: guadagnano meno degli uomini, faticano a fare carriera, a ricoprire incarichi istituzionali, ad avere un lavoro.
Raccontare quello che si è subito, come stanno facendo e faranno molte donne che chiedono un cambio di sistema, che la “giustizia” funzioni, che non si taccia più, non significa essere una vittima passiva. È forse una vittima Virginie Despentes, scrittrice, regista, femminista e lesbica militante, citata a casaccio in un articolo recente, quando racconta in tv e nei suoi libri lo stupro subito?
Lei dice che parlare dello stupro e scriverne l’ha salvata. Lei non accetta di “essere stata rovinata a vita” dalla violenza e lo fa riconoscendola, nominandola, raccontandola, per poi riflettere su come avrebbe potuto reagire, o come reagirebbe adesso: ribellandosi, ferendo l’aggressore e spingendosi anche oltre? Nel suo libro-manifesto King Kong Girl (Einaudi, fuori ristampa), spiega che “agli uomini piace pensare che quello che le donne preferiscono è sedurli ed eccitarli”, e che, però, “non tutte le donne hanno un’anima da cortigiana. Certe, per esempio, hanno il gusto del potere diretto, quello che permette di arrivare da qualche parte senza dovere sorridere a tre vecchi arnesi sperando di essere assunte con il tal ruolo, o che venga affidato loro tale incarico”.
Dai pulpiti viene anche detto alle donne: se volete una cosa sul lavoro, prendetevela, smettetela con le lamentele. Mi chiedo se chi parla conosca il sistema del mercato del lavoro italiano, con i regali (in termini di precarietà, insicurezza, bassi redditi) che ci sono stati fatti negli ultimi vent’anni, dal Pacchetto Treu di Prodi per arrivare al Jobs Act di Renzi e la difficoltà di denunciare, quando succede un’ingiustizia. Secondo l’Istat, il 99% dei ricatti sessuali non viene denunciato dal milione e 403 mila donne che subiscono avances, battute, palpeggiamenti, ricatti e violenze. Stupri e tentati stupri sul lavoro sono stati subiti da 76mila donne, l’equivalente numerico della popolazione di Asti. Molte delle vittime, abbandonano il lavoro.
L’accusa di opportunismo
Oltre alla denigrata categoria di vittima, in Italia va alla grande anche quella di esibizionista. Così è stata messa in croce l’attrice Asia Argento, che ha raccontato il supplizio causato da Weinstein quando era agli inizi della sua carriera. «Io ero una ragazzina. Questa è una cosa che ricordo ancora oggi. Una visione che mi perseguita. Non c’è bisogno di legare le donne, come dice qualcuno, perché ci sia violenza». È stata invitata a parlare nei salotti televisivi con persone quasi mai preparate sul tema, che hanno fatto di tutto per buttare la discussione in vacca, per fare chiacchiere da bar. Eppure ci sono ricercatrici, docenti, attiviste, scrittrici, registe che sarebbero potute entrare nel merito con rispetto, portando il discorso a un livello costruttivo, senza restare in questo perenne circolo di victim blaming, la colpevolizzazione della vittima, sport nazionale.
Caccia alle streghe?
Si grida alla caccia alle streghe. Anche in questo caso si tratta di affermazioni non basate sui fatti. Intanto, per le ricadute pratiche: non ci sono schiere di uomini che stanno rischiando il posto di lavoro, come invece è sempre successo a molte donne. Inoltre, non c’è alcun intento persecutorio: in atto c’è il tentativo, come ha sottolineato in diverse occasioni la scrittrice Rebecca Solnit (da qualche mese è arrivata anche nelle librerie italiane la sua raccolta di saggi Gli uomini mi spiegano le cose, pubblicata da Ponte Alle Grazie), di scoperchiare un sistema che si è autotutelato per troppo tempo.
Sotto accusa c’è un sistema di potere, non il genere maschile.
Il dibattito sulle molestie sul lavoro non è nuovo in ambito accademico. Da trent’anni nelle università anglosassoni, americane e del nord Europa ci sono analisi e pubblicazioni che dicono che la sessualità nelle organizzazioni lavorative di ogni ambito è un aspetto che diventa problematico quando si combina con l’abuso di potere. E infatti le grandi società internazionali si sono dotate da anni di codici interni, proprio per tenere sotto controllo l’esercizio del potere, per spiegare a boss e manager che non si può andare a cena con la segretaria, con la stagista, con chi sta sotto. Anche su giornali come Forbes si discute della questione, incitando i leader delle aziende ad affrontare il problema.
Sarebbe ora che anche in Italia, come succede negli Stati Uniti, con le inchieste del New York Times, gli articoli di opinione di femministe studiose dell’argomento, il movimento Time’s up – formato da attrici e donne di potere che copre le spese legali di chi decide di denunciare – la Commissione sulle molestie sessuali sul lavoro centrata su Hollywood, diretta da Anita Hill, si lasciassero da parte le polemiche sterili per entrare nel merito del discorso, individuando le soluzioni di come eliminare le molestie sul lavoro, facilitando le denunce, la raccolte di prove, i processi. Sarebbe il caso che si esaminassero le implicazioni e le conseguenze del “dominio maschile”, e non ci si limitasse a liquidare quello che sta succedendo come una guerra.
Tutto questo non avrà nessuna conseguenza per quelle che vogliono continuare ad andare, di loro spontanea volontà, a letto con i potenti. È chiaro che è sempre esistito e sempre esisterà il rapporto consenziente. Bisogna però che sia una scelta e non una forzatura. Perché in questo secondo caso, si chiama violenza.
http://pasionaria.it/molestie-weinstein-ricatti-sul-lavoro-non-sessualita/


lunedì 22 gennaio 2018

Maltrattamenti sulle donne: come funzionano i Centri antiviolenza di Maria Concetta Tringali

Molto spesso le donne che subiscono violenze in famiglia non sanno come uscire da questa situazione, si sentono sole. Ma esiste in Italia, come nel resto d'Europa, una rete di aiuto che prende in carico le vittime di violenza domestica fin dall'inizio e le accompagna in tutto il percorso di fuoriuscita dalla situazione violenta. Con case-rifugio e assistenza psicologica e legale. Ecco come funzionano.
In Italia di femminicidio muore una donna ogni due giorni. L’assassino è di solito il marito o il compagno, oppure l’ex. L’anno che è appena trascorso ne conta circa 120. Sono reati che si consumano fra le mura domestiche e che non conoscono differenze sociali. L’Inchiesta sul femminicidio voluta dal Ministero della Giustizia ne registra un totale di circa 600 negli ultimi quattro anni, 145 nel solo 2016. I numeri raccontano massacri. I femminicidi sono solo la punta dell'iceberg. Ci sono le donne che vengono malmenate, violentate, perseguitate. Una su tre ha subito, nel corso della propria vita, una qualche forma di abuso.
Ma una donna spaventata, maltrattata, umiliata cosa può fare? Può rivolgersi oggi a un Centro Antiviolenza. Esiste nel nostro paese un numero verde, il 1522, che raccoglie la richiesta di aiuto delle vittime di abusi domestici. Il servizio mette in contatto la donna con il Centro a lei più vicino, a ogni ora del giorno, ogni giorno. Si tratta di una rete, fatta di altre donne, che cerca di far fronte a questa crescente richiesta di protezione e di aiuto. In Italia come in Europa, sono migliaia le associazioni che gestiscono Centri antiviolenza.
La Casa delle donne per non subire violenza, Onlus ne ha fatto una mappatura sin dal 1990 e oggi ne conta nel nostro Paese circa 160. E poi c’è Wave, sigla che sta per Women Against Violence Europe. Il network raccoglie 45 Paesi tra cui 28 Stati dell’Unione, la Croatia, la Turchia e in parte i Balcani. Nei fatti comprende 4.000 Centri Antiviolenza, sparsi in tutta Europa. Il coordinamento è affidato in Italia dal 2008 a D.i.Re (Donne in rete contro la violenza).
Nel Regno Unito, dove in media di femminicidio muore una donna alla settimana, il programma di protezione delle vittime si chiama EDV ed è innovativo. Affronta la violenza domestica costruendo attorno alla vittima una ragnatela di possibilità. Riunisce attorno a un tavolo le principali agenzie pubbliche, organizzazioni e servizi (MARAC) e l’Indipendent Domestic Violence Advisor (IDVA), un consulente indipendente con il compito di seguire la vittima e i suoi figli in tutti i passaggi necessari per sottrarsi alla violenza domestica, garantendone la protezione e la sicurezza.
 È da una di queste associazioni in Italia che parte il percorso di liberazione di una ragazza di appena 20 anni, mamma di un bambino di tre, che chiameremo Anna. Da lei sappiamo che incontra le donne del Centro della sua città che è gennaio. Fa freddo e c’è un vento gelido che porta pioggia. Racconta loro della paura, dell’ansia che la sovrastano e la paralizzano da quando vive braccata, perseguitata, spiata dall’uomo che era stato il suo compagno fino a poco tempo prima. Non accetta un no come risposta, lui la vuole ad ogni costo. Lei ha deciso invece di non volerlo più.
Al Centro antiviolenza arriva dopo una telefonata, nella quale una voce gentile e competente le chiede di raccontare e raccontarsi; così i dettagli e i tratti importanti di quella storia finiscono tutte in una scheda di accoglienza. In quel documento dolori e tumefazioni prendono forma, insieme alle generalità del maltrattante, a quelle della donna (le volte che, come Anna, non si voglia l’anonimato) e del minore, vittima a sua volta di violenza assistita. Questo lavoro di sintesi e di compilazione, se è fatto in maniera meticolosa e circostanziata, è prezioso. Può servire da traccia per la predisposizione di una querela redatta correttamente. Che poi la vittima arrivi presso le forze dell’ordine accompagnata da un pool di esperte è circostanza che riesce, il più delle volte, a fare davvero la differenza.
 Il primissimo contatto è fondamentale, la tempestività dell’intervento anche. Alla telefonata l’operatrice formata per l’occorrenza fa seguire l’accoglienza fisica, a tutti gli effetti. Serve del tempo e una strategia efficace per portare in salvo chi è stata violata, ma tante volte l’urgenza è il bisogno primario di metterla in sicurezza, quella donna. Così, quando una vittima non può tornare a casa senza rischiare la vita, il Centro attiva protocolli in emergenza, cerca un rifugio.
E lo fa sfruttando la padronanza del territorio. Esiste una rete di strutture, disseminate nelle regioni. Non sono accessibili se non attraverso una procedura che si attiva ad hoc e che coinvolge le forze dell’ordine. Le cosiddette case-rifugio sono luoghi di accoglienza che garantiscono un tetto e un pasto caldo alle vittime e ai loro bambini, un ricovero che può durare anche dei mesi.
Anna viene presa in carico che non ha bisogno di un riparo perché sta già dai genitori, ma di assistenza legale invece sì. Nel suo caso quello che è necessario è, per prima cosa, fermare lo stalking. Serve poi aiutarla a regolamentare l’affidamento del bambino. E così, le avvocate del Centro antiviolenza l’accompagnano in questura dove viene intanto richiesto l’ammonimento contro l’ex compagno, in modo da far cessare gli atti persecutori; è un’intimazione, il passo che si compie prima di arrivare alla querela e al processo vero e proprio. Bisogna poi che si stabiliscano delle regole, che si chieda per la mamma l’affidamento esclusivo del piccolo; al padre dovranno fissarsi dei giorni di visita precisi, con l’obbligo di contribuire al mantenimento del minore. Le avvocate ricorrono al giudice civile, dunque, affinché regoli i rapporti tra i genitori e il figlio.
 Anna è una donna giovane ma ha già le idee molto chiare. Altre sono più fragili di lei, arrivano stanche alla decisione di liberarsi dal maltrattante, sfiancate da anni di abusi. Il Centro antiviolenza interviene anche da questo punto di vista e offre alle vittime la necessaria assistenza psicologica. Sono tutte storie di relazioni tossiche; alcune sono storie di matrimoni tossici.
Quella che chiameremo Anouk è una donna di mezza età, una straniera dai tratti mediorientali, occhi scuri e capelli neri. Arriva al Centro antiviolenza perché ha un marito geloso e ossessivo che la separazione non gliela concederebbe mai. Dalle operatrici fa una scoperta che le salverà la vita: impara di non avere bisogno del permesso di lui per avviare le pratiche che la porteranno al divorzio. E comincia così il percorso per allontanare da sé quell’uomo abusante che la maltratta da troppo tempo.
Anche nel momento più duro, davanti al giudice penale, il Centro antiviolenza siede accanto alla vittima e la sostiene attraverso azioni che mirano ad essere insieme concrete e altamente simboliche. Tra tutte, c’è la costituzione di parte civile che è scelta precisa di chi decide di agire a tutela degli interessi di tutte le donne. Da sole, non sempre, le vittime troverebbero la strada migliore. Ecco che il volontariato, sperimentato ogni giorno da altre donne, finisce per essere il faro che illumina esistenze che si credevano perdute.
Certamente ci sono dei limiti. A sentire le operatrici la nota dolente è per lo più sempre la stessa: servono fondi. “C'è da dire che i Centri antiviolenza non godono dell'aiuto economico delle istituzioni, salvo qualche sporadico bando”, avverte Loredana Mazza, avvocata e presidente del Centro Antiviolenza Galatea che opera nel catanese da anni. Delle somme previste dalla legge del 2013 solo una piccola parte finora è davvero finita nelle casse dei Centri, per non tacere del fatto che il governo Gentiloni ha recentemente tagliato risorse già insufficienti.
Il percorso per chi decide di denunciare è complicato e dolorosissimo. Dopo anni di soprusi, attraversando il dolore fisico e la paura, se si è più fortunate di altre si arriva alla consapevolezza di dover morire ma finalmente si passa oltre. Scatta come una molla la voglia di farcela. E i costi? Nel caso di violenza domestica il legale va col patrocinio a carico dello Stato, nel senso che è assicurata alle vittime di abusi la difesa gratuita, indipendentemente dal reddito dichiarato. Anche nel caso del ricovero e della permanenza in casa rifugio, non ci sono spese per la vittima, il Comune di residenza si fa carico della retta.
Per la donna che lavora esiste da pochissimo la possibilità di prendersi un periodo di astensione. È un congedo retribuito, fino a tre mesi, rivolto alla dipendente del settore privato che dimostri di essere inserita in percorso di fuoriuscita dalla violenza domestica, da non più di tre anni. È una novità degli ultimi tempi, non vale ancora per tutte le lavoratrici, restano fuori le collaboratrici domestiche e familiari, così pure tutto il pubblico impiego.
Ci vogliono leggi migliori, certamente, un sistema di tutele più coerente è auspicabile. Serve un supporto concreto e continuo ai Centri antiviolenza, nel loro lavoro quotidiano. “Ritengo che per fare fronte comune alla lotta contro il fenomeno si dovrebbe puntare oggi a pretendere dallo Stato leggi più severe e meno schizofreniche, interventi più efficaci dall’autorità giudiziaria; e la creazione all'interno delle forze dell’ordine di squadre specializzate”: lucidamente vengono fuori priorità e bisogni, dalle parole dell’avv. Mazza. “Quanto alle amministrazioni locali, si dovrebbe invece pensare seriamente all'inserimento, nei bilanci annuali, di capitoli di spesa dedicati alla lotta alla violenza”.
Nell’ultimo decennio sono state emanati alcuni provvedimenti importanti. La Convenzione di Istanbul che per prima definisce la violenza di genere nei termini di una violazione dei diritti umani ha imposto agli Stati membri azioni rivolte alla prevenzione del fenomeno, alla protezione della vittima e alla punizione del reo: tre P, per salvare la vita delle donne.
Se è vero che dopo il 2013 nel nostro paese sono state inasprite le pene, se sono state introdotte aggravanti (quando la violenza è commessa all’interno di una relazione affettiva), se oggi è previsto l’arresto in flagranza obbligatorio nelle ipotesi di stalking, se la legge dispone (per la verità già dal 2001) che il maltrattante sia allontanato dalla casa familiare, nella realtà tuttavia il sistema non tutela abbastanza la vittima. Non funziona ancora come dovrebbe. Sul fronte delle nuove migrazioni, poi, è anche peggio. Le migranti sono oggi le vittime in assoluto più vulnerabili e indifese.
Come si argina la mattanza, ce lo dicono le operatrici impegnate tutti i giorni sul campo. La voce unanime dei Centri è che occorre, sopra ogni altra cosa, uno sguardo sulla violenza di genere che non si fermi più al solo livello dell’emergenza. Serve che la politica capisca che il fenomeno si debella solo con interventi strutturali. Non bastano più le giornate commemorative, non è più tempo. Serve altro, serve impegno. E unità d’intenti.
http://temi.repubblica.it/micromega-online/maltrattamenti-sulle-donne-come-funzionano-i-centri-antiviolenza/

domenica 21 gennaio 2018

Oltre le statistiche: le donne pretendono la giusta attenzione da Simona Sforza

È tutto l’intero sistema che deve essere rivoluzionato, dai tempi di vita e lavoro alle retribuzioni, dai contratti alle tutele, dalla cultura alle prassi, dalla mentalità all’organizzazione aziendale, perché le discriminazioni di genere siano superate, restino solo un vago ricordo di un tempo che non dava giusto valore alle donne e di fatto creava gabbie nocive per tutti e tutte. Ma fino ad allora dovremo impegnarci su più piani affinché si raggiunga una realtà più equa.
 Oltre le statistiche che vedono incrementarsi il numero delle donne occupate, occorre leggere a fondo per comprendere come e perché non è tutto oro quello che luccica. Al di là del metodo di computo degli occupati che lascia qualche perplessità sulla reale qualità e quantità di occupazione, da anni registriamo un numero enorme di “uscite volontarie”. Un report che registra periodicamente i genitori con bambini fino ai 3 anni che si dimettono, mostra un’emorragia silenziosa, che resta privata nonostante qualche cenno temporaneo sui giornali, nonostante il fenomeno sia conosciuto ma con un’attenzione a corrente alternata, perché quando si parla di stato di salute dell’occupazione femminile, si preferisce marginalizzare il dettaglio. Quasi trentamila donne, e questo è solo il numero della punta dell’iceberg, fanno questa scelta. Nella parte sommersa dell’iceberg restano coloro che vedono esaurirsi il contratto a termine senza che venga rinnovato, oppure coloro che sono costrette a lavorare senza un contratto e non hanno mai avuto diritti. Perché si sa che se vuoi lavorare, se devi lavorare accetti tutto, anche perdere tutele e garanzie. Eppure il lavoro è citato nel primo articolo della nostra Costituzione.
Non ne ho scritto per qualche giorno. Non avrei voluto scrivere, devo dire la verità. L’ho fatto ogni anno e quella relazione mi ricorda a che punto sono e perché. Parlo in prima persona, perché la formula impersonale in questo caso non avrebbe senso. Non c’è rammarico, solo la sensazione che poi di quelle donne nessuno si preoccuperà di seguirne le vite e i destini, nessuno cercherà di capire quanto una firma volontaria inciderà sul loro futuro e che corso prenderà la loro esistenza.
In Italia le dimissioni volontarie sono state 37.738. Secondo i dati dell’Ispettorato nazionale del lavoro che le convalida, nel 2016, le donne che si sono licenziate sono state 29.879. Tra le mamme, 5.261 sono i passaggi ad altra azienda, spesso con ruoli e mansioni elevate, mentre tutte le altre (24.618) hanno specificato motivazioni legate alla difficoltà di assistere il bambino (costi elevati e mancanza di nidi) o alla difficoltà di conciliare lavoro e famiglia. Per gli uomini la situazione è invertita, la maggior parte lascia il lavoro per passare ad altra azienda.
La Lombardia, a dispetto dell’aura all’avanguardia di cui spesso si fregia, è in testa con 8.850 dimissioni, di cui 3.757 sono dovute al passaggio ad altra azienda e 5.093 sono legate a motivi familiari. Meno guadagni più aumenta la spinta a dimetterti, perché si rinuncia a troppo dal lato emotivo e non si ha nemmeno la possibilità di trovare un adeguato sostegno. Le donne, 6.767: quasi la metà (3.105) si sono licenziate per mancato accoglimento al nido, assenza di parenti di supporto e elevata incidenza dei costi di assistenza del pargolo.
Non c’è inversione, no. Non sono numeri piccoli, sono migliaia. Migliaia di quei casi che possiamo registrare, perché ci sono regole. Migliaia che non parlano di cosa succede dopo i tre anni o di quante “restano”, stringendo i denti e subendo mobbing e pressioni di ogni genere.
Sapete cosa significa diventare mamme e non avere nemmeno un messaggio di auguri dai colleghi? Sapete cosa significa rientrare e sentirsi aliene? Sapete quante sono le donne che vanno in pezzi? Nessun monitoraggio sul “dopo”, solo un grande buco nero, una sorta di abbandono alle proprie sorti, una dimensione nella quale competenze e capacità sembrano essere state svalutate, causa maternità.
Tutto sommato, in generale, non c’è la giusta attenzione perché anche tra donne non sempre c’è. Tutto è questione privata, ancora quasi del tutto sulle spalle delle donne, che non sono considerate come valore sociale ma come peso e costo aziendale, che è preferibile dismettere, al pari di un macchinario divenuto improvvisamente meno efficiente. Non c’è una responsabilizzazione delle istituzioni e delle imprese a modificare approcci e organizzazione. Si preferisce tagliare o invitare ad un autonomo “delete”.
Ecco che il benessere delle donne tutte viene sacrificato e facilmente derubricato a questione secondaria.
Non è solo una questione di giustizia, no. È una questione di civiltà, di diritti fondamentali, di un’attenzione verso chi ha dovuto scegliere senza avere alternative, verso chi pur potendo dare tanto è stata ripagata con un muro, a cui è stata di fatto negata la possibilità di tenere insieme, con un buon equilibrio, vita privata e lavoro. Questa visione miope ha ripercussioni gravi non solo sulle singole vite, ma anche sull’intero sistema Paese. Se traballa e ha un equilibrio instabile è anche perché si è di fatto rinunciato a coinvolgere pienamente e degnamente le donne, le si è sempre costrette ad adeguarsi a modelli progettati per gli uomini, pena l’esclusione.
“Un dato che merita riflessioni approfondite e che rende evidente come, fra le tante problematicità storiche del nostro mercato del lavoro, quella di genere meriti particolare attenzione”, così si sono espresse la segretaria confederale della Cgil Tania Scacchetti e la responsabile Politiche di genere Loredana Taddei.
In Europa assistiamo a un medesimo fenomeno: al crescere del numero di figli la forbice tra uomini e donne aumenta, i primi lavorano di più, le seconde lavorano di meno, sia in termini di effettiva partecipazione che il numero di ore lavorate (si veda il problema del part-time involontario). In Italia e Spagna questo trend è particolarmente preoccupante e duraturo. In Italia: uomini senza figli al 67,3% e donne al 51,9%, uomini con un figlio al 79,3% e donne al 56,7%, uomini con due figli al 86% e donne al 55%, uomini con tre figli o più al 81,8% e donne al 43,8%. Il 32,7% delle donne lavora part-time, a fronte dell’8,2% degli uomini.
Ma il problema non è solo lavorare, ma quanto siamo retribuite, fattore cruciale come abbiamo visto nella scelta se restare o lasciare il posto. Quando vi è la necessità di lavoro di cura, le famiglie automaticamente e razionalmente scelgono che se ne occupi la persona che ha condizioni di lavoro meno favorevoli. Il più delle volte, si tratta della donna.
Eppure per un cambio di mentalità e di prassi basterebbe iniziare a lavorare più attentamente su pari conciliazione, partendo dai congedi per i padri. Qui un buon esempio.
Un modo per iniziare a scardinare ruoli stereotipati e redistribuire i pesi, senza che vi siano ripercussioni di carriera su nessuno/a.
In Europa le donne sono ancora pagate in media il 16,3% in meno rispetto agli uomini.
Negli ultimi anni il pay gap è rimasto più o meno stabile, perché le donne hanno tendenzialmente un tasso di impiego inferiore rispetto agli uomini, lavorano in settori caratterizzati da retribuzioni più basse, vengono promosse meno di frequente, specie se decidono di avere una famiglia, sperimentano più interruzioni di lavoro nel corso della loro carriera professionale e devono accollarsi un numero maggiore di mansioni o attività non retribuite.
La Commissione europea ha presentato un piano d’azione per affrontare il problema del divario retributivo di genere per gli anni 2018-2019.
L’attuazione del piano da parte di tutti i soggetti interessati dovrebbe:
– migliorare il rispetto del principio della parità di retribuzione, valutando la possibilità di modificare la direttiva sulla parità di genere;
– ridurre lo svantaggio connesso alle mansioni di accudimento familiare, sollecitando il Parlamento europeo e gli Stati membri ad adottare rapidamente la proposta dell’aprile 2017 sull’equilibrio tra vita professionale e vita privata;
– infrangere il “soffitto di cristallo”, finanziando progetti volti a migliorare l’equilibrio di genere nelle imprese a tutti i livelli di gestione e incoraggiando i governi e le parti sociali ad adottare misure concrete per migliorare l’equilibrio di genere nei processi decisionali.
Per approfondire, qui ci sono i dettagli del piano.
Secondo l’indagine Eurobarometro pubblicata a novembre 2017, la parità di genere non è ancora raggiunta negli Stati membri dell’UE, anche se si nota un certo margine di miglioramento.
È emerso che:
· La parità di genere è importante per la maggior parte degli europei: secondo nove europei su dieci promuovere la parità di genere è importante per la società, per l’economia e per loro stessi personalmente.
· Sono necessarie più donne in politica: metà degli europei ritiene che ci dovrebbe essere una maggior presenza di donne nei posti politici di comando e sette europei su dieci si dicono a favore di misure giuridiche che garantiscano la parità tra uomini e donne in politica.
· L’equa condivisione dei compiti nei lavori domestici e nell’accudimento dei figli non è ancora realtà: più di otto europei su dieci ritengono che l’uomo debba farsi carico in ugual misura dei lavori domestici o usufruire del congedo parentale per prendersi cura dei figli. La maggioranza (il 73%) pensa tuttavia che le donne continuino a dedicare più tempo degli uomini alle incombenze domestiche e familiari.
· La parità di retribuzione è un elemento importante: il 90% degli europei dichiara che è inaccettabile che le donne siano retribuite meno degli uomini e il 64% è a favore della trasparenza retributiva come veicolo di cambiamento.
Qui trovate il testo completo dell’indagine.
Sarebbe importante che la trasparenza salariale diventasse una regola certa in ogni azienda, anche nel nostro Paese. In Italia le aziende pubbliche e private con più di 100 dipendenti sono obbligate a redigere, almeno ogni due anni, un “Rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile”, una specie di check up dello stato di salute della parità in azienda, dalla distribuzione dei premi al trattamento salariale, trattamento delle madri lavoratrici ecc. Le consigliere di parità, il cui prezioso lavoro andrebbe rifinanziato adeguatamente, esaminano questi documenti per verificare se vi siano anomalie e nel caso intervenire.
È tutto l’intero sistema che deve essere rivoluzionato, dai tempi di vita e lavoro alle retribuzioni, dai contratti alle tutele, dalla cultura alle prassi, dalla mentalità all’organizzazione aziendale, perché le discriminazioni di genere siano superate, restino solo un vago ricordo di un tempo che non dava giusto valore alle donne e di fatto creava gabbie nocive per tutti e tutte. Ma fino ad allora dovremo impegnarci su più piani affinché si raggiunga una realtà più equa.
http://www.dols.it/2018/01/20/oltre-le-statistiche-le-donne-pretendono-la-giusta-attenzione/

venerdì 19 gennaio 2018

assemblea socie ventunesimodonna

Venerdì 26 gennaio 2018
alle 21 
    presso il Bem Viver Cafè 
     saletta sotto) 
    via v.Monti 5 Corsico, 

è convocata l'assemblea delle socie dell'Associazione “ventunesimodonna", col seguente ordine del giorno:
- rinnovo delle cariche
- valutazione del lavoro svolto
- approvazione bilancio 2017
- programmazione annuale
- varie ed eventuali

Vi aspettiamo numerose e propositive,
la presidente Daniela Labella


Il Sexgate esplode all'Onu: centinaia di abusi sessuali in un clima d'omertà

Il The Guardian pubblica un'inchiesta che denuncia moltissimi casi interni alle Nazioni Unite, tutti legati da un'unica minaccia: se parlate, perdete il lavoro.

Il quotidiano inglese The Guardian ha pubblicato un articolo che denuncia una serie di casi di molestie sessuali all'interno delle Nazioni Unite. Nell'articolo, decine di attuali e vecchi impiegati dell'Onu descrivono una cultura del silenzio all'interno dell'organizzazione e le accuse, tutte fornite in maniera anonima, vanno dalla molestia verbale al vero e proprio stupro. Tutte le vittime concordano su un punto: nessuno poteva parlare, pena la perdita del proprio lavoro.

L'indagine è stata condotta dal Guardian su dieci sedi diverse dell'Onu (quindi dieci diversi paesi) e le storie delle vittime erano fin troppo simili tra loro: tre donne, tutte da differenti uffici, hanno dichiarato di essere state ripetutamente minacciate se avessero parlato e ad essere accusato sono uomini che ricoprono posizioni di rilievo all'interno delle Nazioni Unite.

Molte donne hanno confermato che il problema è conosciuto all'interno dell'Onu, e che alcune indagini interne sono state effettuate, ma sempre con lo stesso risultato: alcune donne hanno dichiarato che le indagini non sono riuscite a trovare abbastanza prove, mentre altre hanno potuto constatare che all'interno dei documenti relativi ai loro casi (visionati dal Guardian) c'erano numerosi errori e omissioni di testimonianze fondamentali.
http://www.globalist.it/world/articolo/2018/01/18/il-sexgate-esplode-all-onu-centinaia-di-abusi-sessuali-in-un-clima-d-omerta-2018017.html

giovedì 18 gennaio 2018

La pubblicità sessista sparirà dalle strade di Stoccolma di Maria Vittoria Tinti

Seguendo la scia della campagna #MeToo lanciata sui social e l'esempio di Berlino e Parigi, anche la Svezia sceglie di eliminare dalle strade gli stereotipi culturali e di genere
 Il vento sta cambiando. Dopo le campagna #MeToo e le numerosi dichiarazioni da parte di tutte le donne da ogni parte del mondo, famose e non, anche le città europee iniziano ad educare i loro cittadini, di oggi e di domani, prendendo una posizione ferma riguardo alla pubblicità razzista e sessista che oggi svolge ancora un ruolo importante nella creazione di stereotipi culturali e di genere.
La prima città è stata Berlino, in cui un intero quartiere si è ribellato alla mercificazione del corpo femminile e ha vietato affissioni discriminanti in un intero quartiere; oggi anche la modernissima Svezia si muove nella graduale eliminazione di ogni advertising che possa in qualche modo aiutare e suggerire comportamenti non corretti nei confronti delle donne o di persone di origine differente da quella svedese.
Offline come sui social, insomma, si chiede oggi una maggiore attenzione a qualsiasi messaggio offensivo.
La pubblicita razzista e sessista sparira' dalle strade di Stoccolma
Questa scelta rappresenta un inizio molto importante per la nostra società: i brand sono stati spesso abituati a classificare i loro prodotti come belli e premium, se associati ad un’immagine provocante, che spesso non ha nulla a che vedere con il prodotto stesso.
Il motivo di queste scelte è da ricercarsi nella cultura e nella storia dell’advertising, iniziata già nel lontano Ottocento.
Nei primi annunci stampa la figura della donna non aveva un’accezione negativa: era considerata la portatrice per eccellenza di innovazione e cambiamento. Con il graduale evolversi della società e l’affermarsi dell’uomo come simbolo di potere e forza, anche la figura femminile ha subito un mutamento nel corso del tempo, ricoprendo dei ruoli a seconda dell’epoca. Negli anni ’50 il ruolo della donna era associato a quello di regina della casa, negli anni ’70, in apparente antitesi con le lotte per l’emancipazione (anche sessuale), divenne simbolo di sensualità e oggetto di desiderio.
Restrizioni e comunicazione: quando non si parla di limiti ma di opportunità
La decisione presa da Stoccolma rappresenta una nuova era per i brand e non solo; il messaggio è forte e chiaro. La figura femminile non scomparirà dalla nostra cultura e continuerà ad avere un  ruolo fondamentale e di rilievo nella comunicazione.
I tempi cambiano e, come sappiamo, cambia anche la percezione: per questo motivo un buon creativo dovrà necessariamente imparare a tenere in considerazione anche queste nuove leggi, da non interpretare come un vincolo, ma come una nuova opportunità.
Ciò che sta infatti offrendo la Svezia rappresenta una nuova idea, una nuova visione e non una costrizione per i brand. Di certo la presenza della donna rispettosa, di ogni origine e cultura e non solo occidentale, associata a ruoli erroneamente interpretati come esclusivamente maschili, potrà essere un’interessante strategia anche a livello marketing, catturando una parte di consumatori sensibili a queste tematiche. Una parte di mercato ancora inesplorata, ma dal grande potenziale.
http://www.ninjamarketing.it/2018/01/03/svezia-stoccolma-cancella-la-pubblicita-razzista-e-sessista/

martedì 16 gennaio 2018

Violenza donne: Sos Stalking, 113 vittime nel 2017

I dati raccolti dall'associazione Sos Stalking Nel 2017 113 vittime di femminicidio in Italia
   Sono 113 le donne che da gennaio dicembre 2017 hanno perso la vita: è questo il bilancio delle vittime di femminicidio secondo i dati raccolti dall'associazione Sos Stalking. Due delle donne assassinate erano in procinto di diventare madri e i rispettivi feti, di 5 e 6 mesi, sono morti assieme a loro. "C'è però un dato rincuorante, sebbene non sufficiente per poter definire la situazione meno grave - afferma l'avvocato Lorenzo Puglisi, Presidente e fondatore di Sos Stalking - e cioè che rispetto ai due anni precedenti gli omicidi sono calati del 7%".

   Le vittime di violenza sono state uccise - riferisce l'associazione Sos Stalking - nella quasi totalità dei casi, mariti, compagni o ex.
Nel 2016 in Italia erano state uccise 115 donne,
il 2015 aveva invece visto 120 vittime,
117 donne erano state uccise nel 2014 e
138 nel 2013.
"Una  strage che vede le donne indifese di fronte alla furia cieca dei loro partner o ex partner, incapaci di accettare la fine della relazione o la volontà della ex compagna di volersi ricostruire una vita al di fuori della coppia", commenta l'associazione.

    Il trend delle denunce di stalking è in netto calo. "Si stima che su 3.466.000 vittime il 78% non abbia sporto querela, soprattutto per la sfiducia che viene riposta nelle Autorità che spesso tardano a fornire un primo aiuto", si legge nel dossier.

    I numeri variano da regione a regione e confermano il triste primato della Lombardia, con il numero più alto di donne assassinate, 19, seguita dall'Emilia Romagna, che registra 16 omicidi, dal Veneto, 13, dalla Campania, 12 donne uccise, da Sardegna, Sicilia e Toscana 7 femminicidi per regione, a cui seguono il Piemonte con 6, Lazio, Abruzzo e Puglia con 5, Liguria e Friuli 3, Trentino e Calabria con 2 e infine Marche con un omicidio.

Oltre alle vittime in prima linea, ci sono le cosiddette 'vittime secondarie', i bambini o ragazzi che, in seguito al delitto, si sono ritrovati orfani di madre o, in caso di omicidio-suicidio, di entrambi i genitori. In Italia sono circa 2000 gli orfani del femminicidio: "Ben 67 si sono aggiunti nel 2017, hanno un'età media compresa fra i 5 e i 14 anni e si troveranno a fronteggiare le conseguenze spesso irreparabili di tali delitti: dal trauma legato allo shock, sia per aver in alcuni casi testimoniato direttamente all'omicidio, sia per il lutto violento, all'indigenza, alla mancanza di un'educazione adeguata e di una guida in un'età molto delicata per la propria crescita", specifica ancora Puglisi.
http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2018/01/12/violenza-donne-sos-stalking-113-vittime-nel-2017-_31ef7eae-6055-4a2a-a1c3-be9850a7b213.html

lunedì 15 gennaio 2018

Anche in Cina le donne rompono il silenzio, #MeToo diventa #WoYeShi di ALESSANDRA SPALLETTA

La durissima denuncia online della trentenne Luo Qianqian sull'aggressione subita a 18 anni. Ma Pechino ha paura che la campagna si diffonda
#MeToo arriva in Cina e diventa #WoYeShi (#我也是). Il movimento contro le molestie e gli abusi sessuali scaturito dallo scandalo di Harvey Weinstein a Hollywood non aveva attecchito quaggiù. Fino ad oggi. A rompere il silenzio è stata una donna di trent’anni, Luo Qianqian, che il primo gennaio, racconta il Guardian, ha scritto una durissima denuncia online raccontando dell'aggressione sessuale subita all’età di 18 anni da parte del suo supervisore. La forza di parlare arriva dodici anni dopo. "Non c'è più nessun bisogno di avere paura...dobbiamo alzarci in piedi con coraggio e dire 'no'", ha scritto, lanciando l'hashtag #WoYeShi, il corrispettivo del #MeToo che ha fatto il giro del mondo.
In Cina l'80% delle donne ha subito molestie
Così, seppur lentamente, anche le donne cinesi iniziano a denunciare la misoginia, un fenomeno finora limitato soprattutto a causa del ferreo controllo di Pechino sui media. Secondo uno studio citato dal quotidiano anglosassone, l'80% delle donne cinesi ha subito molestie. Eppure sono pochissime le denunce. Secondo Leta Hong Fincher, esperta di movimenti femministi cinesi interpellata dal giornale, le ragioni vanno ricercate nella composizione della classe dirigente cinese, sostanzialmente maschile, in un Paese dove le concubine sono un costume antico e moderno. I leader del Partito Comunista Cinese sono “spaventati” dall’idea che alcuni membri di una élite “intoccabile” possano essere travolti da una simile campagna. Fincher non ha dubbi: #MeToo minaccia il potere, ed è così che la censura dei media si è intensificata.
“Perché #MeToo non è arrivata in Cina?”, ha twittato Josh Chin del  Wall Street Journal . “Un articolo su uno studente dell’Università di Pechino che sostiene che l’istituto abbia messo in piedi un meccanismo per prevenire abusi sessuali è stato più volte censurato su Wechat (la popolare piattaforma di messaggistica, ndr)”, spiega Chin, che allega lo screenshot: “Questo contenuto non può essere visualizzato perché viola le regole”. La censura online blocca qualsiasi contenuto considerato pericoloso e che rischia di minacciare la stabilità sociale. La situazione non è migliorata negli ultimi anni, con un clima politico sempre più repressivo nei confronti degli attivisti e avvocati che si battono per i diritti umani. Nel 2016 cinque femministe cinesi erano state arrestate perché volevano distribuire nei mezzi pubblici volantini e adesivi contro gli abusi sessuali.
Dopo Luo Qianqian le storie si moltiplicano
#WoYeShi sta facendo, lentamente, breccia. Le storie si moltiplicano. La giornalista Huang Xueqin, vittima anche lei di un'aggressione nel 2012, sta conducendo un'indagine sulla violenza contro le donne. C’è poi la studentessa Zheng Xi, che recentemente ha lanciato una campagna pubblica contro le molestie sessuali, ispirata dal movimento americano contro il silenzio. Finora, dice ancora Fincher, è venuta alla luce "solo la più piccola punta dell'iceberg".
La studiosa non teme ritorsioni su queste prime voci uscite allo scoperto: fino a quando questo fenomeno sarà gestibile, le autorità saranno presumibilmente inerti. "Non ci sono problemi se una singola donna parla della sua esperienza - ha spiegato - ma se qualcuna di queste donne la rende una grossa questione o comincia ad avere un prolungato sostegno sui social media, non ho dubbi che la polizia o qualcuno andrà a farle visita". Invitandole a bere una tazza di tè – un modo di dire in Cina per indicare gli interrogatori condotti dalle forze dell’ordine.
https://www.agi.it/estero/agichina/metoo_cina_woyeshi_violenza_donne-3352690/news/2018-01-09/


domenica 14 gennaio 2018

L’APPELLO DI CATHERINE DENEUVE È IMBARAZZANTE, NON CONTROCORRENTE DI JONATHAN BAZZI

Sono cresciuto tra donne abituate a sopportare. Insulti, scoppi d’ira, urla, in qualche caso pure le botte. Da piccolo ho subito, non comprendendolo, lo strano, onnipervasivo, vizio secondo il quale nei rapporti tra maschi e femmine, si ritiene (da sempre) che i primi abbiano modi e inclinazioni che le seconde devono alla fin fine semplicemente accettare. Le donne della mia famiglia – e non solo – quasi sempre e nonostante tutto sono rimaste, hanno perdonato o fatto finta di niente. Che si trattasse di aggressioni verbali, psicologiche o fisiche, di tradimenti o manifestazioni sessuali inopportune, nella mia infanzia tra le case popolari dell’hinterland milanese di Rozzano ho maturato una certa familiarità con quelle dinamiche di potere che vanno sotto il nome di patriarcato. Gli sfottò, sessuali e non, erano all’ordine del giorno: a tavola, in strada, non c’era differenza. La libido maschile e i suoi corollari non erano tenuti a contenersi. Anche se ero un bambino me ne sono accorto presto: ai maschi, per cultura, viene concesso molto. Troppo. Anche perché c’è sempre sullo sfondo la differenza di forza fisica e stazza: il rifiuto, l’opposizione, il contrasto possono portare allo scontro. E in quel caso è prevedibile intuire chi avrà la meglio. Per non parlare del potere economico e della questione del giudizio altrui e della reputazione.
Anche per tutti questi motivi autobiografici, nell’ondata di denunce e polemiche scatenata dal caso Weinstein ho deciso da subito di stare dalla parte delle donne: la posta in gioco è troppo alta e la storia delle prevaricazioni e degli squilibri è lunga come quella dell’umanità. E, proprio per le cose che ho visto e sentito sin da quando ero piccolo, trovo impresentabile l’appello pubblicato ieri su Le Monde di cui tanto si sta parlando in queste ore. Il testo, firmato da cento donne, tra cui anche Catherine Deneuve, compie il solito errore di bollare come “ondata puritana” l’insieme delle reazioni innescate dagli scandali di Hollywood: “In nome di un presunto bene generale, il puritanesimo usa l’argomento della protezione delle donne e della loro emancipazione per incatenarlo a uno status di eterne vittime, di poverette in balia di demoni fallocrati, come all’epoca della caccia alle streghe.” Le firmatarie francesi vogliono distinguersi e si dicono “abbastanza mature” da “non confondere un goffo tentativo di rimorchio con un’aggressione.” I commenti compiaciuti che si trovano su Facebook sotto la notizia dell’appello di Le Monde restituiscono bene il contesto affettivo in cui l’appello si colloca: “Prima di uscire con una donna fatevi firmare una liberatoria…”; “Se vedo una donna in giro e le urlo “bella gnocca”, che fanno? Mi arrestano?”; “Se continua così non si potrà più stare da soli con una donna in un qualunque locale e le donne dovranno portare gonne lunghe e velo”; “Le talebane del sesso femminile hanno veramente rotto”. Le talebane del sesso femminile sono quelle che, secondo le cento firmatarie francesi, fraintendono il femminismo per mettere in atto una “caccia alle streghe”, pretendendo di sottrarre alle donne il piacere del gioco della seduzione e del corteggiamento. L’uomo deve essere libero di provarci, anche goffamente, anche insistentemente. Quando una non vuole dice di no. Fine.
Insomma le francesi reclamano la tradizione, il “così fan tutti”: il costume comune per il quale il corteggiamento comporta sempre e comunque una parte di aggressione o insistenza e può fare a meno – davvero o per finta – del consenso. Un modello sicuramente diffuso e consolidato, ma che forse ora stiamo provando a superare. E lo stiamo facendo anche proprio grazie a questi recenti scandali e al successivo flusso di #metoo, che hanno avuto il senso di diffondere l’idea che no, le cose non devono per forza andare come sono sempre andate. L’appello di Le Monde minimizza il problema e, in nome della libertà sessuale, tenta di restituire al maschile il suo predominio culturale: gli uomini nei rapporti con le donne non sono dei mostri, non vanno fermati, né educati. Il che qualche volta per fortuna è vero: ma è ingenuo (oppure ipocrita) non vedere il problema e la sua sterminata casistica, a livello pubblico e privato. Secondo Catherine Deneuve e le altre si è legittimate a denunciare solo se c’è stato l’agguato, solo se si è state aggredite, immobilizzate, penetrate contro il proprio volere. Il resto non conta, non esiste, non è degno di essere raccontato. Gli uomini hanno i loro modi e le donne che sanno stare al mondo amano anche l’uomo molestatore, hanno un gran pelo sullo stomaco: non si scandalizzano. Da noi in Italia tentativi del genere di minimizzare la questioni sono arrivati per esempio da Natalia Aspesi e Sandra Milo, da donne spesso avanti con gli anni, incapaci evidentemente di concepire un mondo senza gerarchie di genere.
Quella che le firmatarie francesi ritengono essere la normalità va chiamata per quello che è: abuso, molestia, aggressione. “Difendiamo la libertà di importunare indispensabile alla libertà sessuale.” Dubito che le signore vogliano le mani sul culo, il capo che si masturba loro davanti, il provino che diventa assalto, i messaggi con ricatto, le dick pics al posto del copione – perché è questo che è successo nei vari casi di cui si è parlato nelle ultime settimane – ma se davvero lo desiderano sono sicuro che almeno ancora per un bel po’ troveranno qualcuno pronto ad accontentarle. Il cambiamento è iniziato, ma il traguardo è ancora lontano. Per tutte le altre, per quelle che preferiscono, per esempio, avere il diritto di separare la vita lavorativa da quella sessuale, il fenomeno #metoo è stato importante e continua a esserlo, perché ha tracciato un precedente sociale macroscopico e contrario al senso di marcia della tradizione, al silenzio e alla connivenza che la società ha sempre offerto agli abusi di potere maschili.
“Lo stupro è un crimine, ma le avances insistenti o goffe non lo sono, né la galanteria è un’aggressione maschilista”: ma cosa c’è di galante nelle storie emerse da Weinstein in poi? I tweet e i post di #metoo raccontavano forse di galanterie non gradite? Quello che le firmatarie ignorano è proprio come si possa parlare di costrizione in assenza di costrizione fisica. Ma il problema è loro e loro soltanto: non sanno o fingono di non sapere. O forse non ricordano. La vulnerabilità di un’aspirante attrice di 20 anni certo è lontana anni luce dalla sensibilità di un’attrice affermata di 60 o 70 anni.
Non può esserci libertà di molestare, neppure se le signore in questione minimizzano il problema: non tutti i desideri sono leciti, alcuni sono espressione di una psiche fragile o solo rimasta un po’ indietro, non al passo coi tempi. Ritenere che limitare lo strapotere maschile leda la libertà sessuale manifesta un pensiero poco capace di apprezzare l’evoluzione della società. Il consenso deve essere una variabile necessaria e non equivocabile, al contrario di quello che è successo finora, soprattutto quando si trattava del corpo e del desiderio delle donne. I ragazzi e gli uomini non devono essere odiati, ma devono imparare ad ascoltare, a fermarsi e anche a rinunciare, quando è il caso. È questo che promuove la libertà sessuale. Di tutti.
http://thevision.com/attualita/catherine-deneuve-appello-copy/