giovedì 25 aprile 2024

25 Aprile: la Liberazione delle donne di Gianna Melis

Nella Resistenza italiana contro il nazifascismo migliaia di donne ebbero un ruolo chiave, ma questo impegno non fu riconosciuto, pienamente, neppure dai partigiani. Servì per creare il nostro futuro di libertà e parità.

Da staffette a combattenti

Portavano cibo nei nascondigli ai partigiani, li nascondevano e li curavano, facevano la staffetta trasportando armi e materiali di propaganda. Rischiavano la vita e quando venivano catturate dal nemico andavano incontro a torture e violenze sessuali. Ma incredibilmente poche partigiane erano armate. Le donne combattenti riconosciute – si legge nel sito dell’ANPI – furono 35 mila e 70 mila fecero parte dei Gruppi di difesa della Donna, di queste 5mila furono arrestate e torturate, più di duemilacinquecento vennero deportate in Germania, oltre 2800 fucilate o impiccate. Ne caddero in combattimento più di mille ma solo 19, nel dopoguerra, vennero decorate con la Medaglia d’oro al valor militare: Irma Bandiera, Ines Bedeschi, Gina Borellini, Livia Bianchi, Carla Capponi, Cecilia Deganutti, Paola Del Din, Anna Maria Enriquez, Gabriella Degli Esposti Reverberi, Norma Pratelli Parenti, Tina Lorenzoni, Ancilla Marighetto, Clorinda Menguzzato, Irma Marchiani, Rita Rosani, Modesta Rossi Polletti, Virginia Tonelli, Vera Vassalle, Iris Versari, Joyce Lussu. 

L’impegno durante la resistenza fu utile per cambiare la percezione femminile del sé. Quelle donne, che fino ad allora avevano conosciuto soltanto divieti, durante la lotta di liberazione si incontravano, si organizzavano e prendevano coscienza che il loro ruolo era fondamentale per la Liberazione dell’Italia, ma anche per la loro emancipazione. Donne tradite, violentate – era meglio non dirlo per evitare di essere disonorate – alle quali non era permesso di pensare autonomamente, di studiare, di esprimere la loro intelligenza. Con la lotta di Liberazione, sperimentarono nuovi modi di vivere e acquisirono la consapevolezza di poter agire, imbracciare un fucile come gli uomini, dormire al freddo, fare la guardia, combattere contro i tedeschi. Un atto rivoluzionario per le partigiane che servì a dar loro il senso del proprio valore e della propria forza. Ovviamente non tutti, anche tra i compagni di lotta, erano d’accordo su queste scelte: molti criticavano la scelta femminile di abbandonare la casa e la famiglia per impegnarsi nella guerra partigiana, che implicava anche promiscuità e assenza di controllo familiare. Durante la Resistenza, la donna si scopre non solo più libera, ma anche piena di risorse: “Può sentirsi, finalmente, un individuo. Una persona degna d’attenzione e dotata di valore di per se stessa, non solo in relazione al proprio ruolo di moglie o madre” scrive Benedetta Tobagi in La Resistenza delle donne, dove riporta testimonianze su come molte partigiane fossero consapevoli che la promiscuità con gli altri uomini mettesse a rischio la loro reputazione, allora un bene essenziale per essere accettate in società. «È facile dire di una donna: “fa la puttana” quando vive con mille uomini. D’altronde, se entravo alla sera in una stalla con trenta ragazzi, non potevo mica pretendere che la gente pensasse che dicevo il rosario. Insomma, io lo sapevo e l’ho accettato tranquillamente che dicessero che facevo la puttana. Ma ho vissuto da cattolica» sottolinea l’ex partigiana, Tersilla Fenoglio, nome di battaglia Trottolina.

Alla conquista della parità

Le donne che hanno partecipato direttamente alla lotta armata, a volte, hanno dovuto affrontare grandi ostacoli nelle stesse brigate partigiane. Lo racconta bene Carla Capponi, figura centrale della resistenza romana, vicecomandante dei Gap (Gruppi di azione patriottica) nel libro Con cuore di donna. Per esempio, i suoi compagni ritenevano che non dovesse avere la pistola. Lei all’apposto era convinta che in alcuni casi l’arma le avrebbe permesso di difendersi dai nemici. E così, su un autobus affollato, ne rubò una a un uomo, ma i compagni cercarono di sottrargliela. “Il problema è il tabù delle donne che esercitano la violenza, che era molto forte in un contesto culturale tradizionalista come quello italiano. Riconoscere alle donne la possibilità di esercitare la violenza armata avrebbe significato riconoscere un’uguaglianza di genere. Le pochissime donne a cui alla fine fu consentito l’uso delle armi hanno sempre raccontato in seguito i problemi che questo creava loro, in termini culturali e pratici”. afferma la storica Simona Lunadei, autrice di diversi testi sull’argomento, tra cui Storia e memoria. Le lotte delle donne dalla liberazione agli anni 80. “Questo perché si cercò di normalizzare il ruolo delle donne, che proprio durante la guerra avevano sperimentato un’emancipazione dai ruoli tradizionali”, afferma la storica. Uno dei pochi documentari sull’argomento fu quello di Liliana Cavani del 1965, Le donne nella resistenza e il romanzo L’Agnese va a morire di Renata Viganò pubblicato nel 1949.

Altri partigiani, invece, erano consci che le donne stavano facendo qualcosa di grande che peraltro non era richiesto dalla legge: “Il primo riconoscimento – scriveva Marisa Ombra, partigiana, in un suo articolo pubblicato su Patria Indipendente del novembre 2016 – l’abbiamo avuto proprio dai partigiani con i quali vivevamo, perché loro sapevano che noi donne non eravamo obbligate a fare la guerra. I ragazzi erano obbligati, perché c’erano i bandi dei tedeschi, dei repubblichini, e se non si presentavano diventano disertori, rischiando la fucilazione o la deportazione. Per noi non c’erano stati bandi, l’abbiamo fatto perché ci credevamo, volevamo fare la nostra parte. Io credo che riconoscessero che era la prima volta che le donne entravano in guerra, e ci entravano in quel modo, in prima fila; uscivano dal ruolo familiare e si assumevano responsabilità fondamentali, militari, politiche, sociali”. Marisa Ombra ha scritto anche il bellissimo libro ”Libere Sempre” Una ragazza della resistenza a una ragazza di oggi.

Sebben che siamo donne, paura non abbiamo

Armate o disarmate, d’ogni fascia sociale e di ogni professione, giovani e meno giovani, meridionali e settentrionali, antifasciste per scelta personale o tradizione familiare, le donne hanno dato alla Resistenza un grande contributo, partecipando attivamente anche alla lotta armata. La lotta di Liberazione ha offerto alle donne la «prima occasione storica di politicizzazione democratica» ma ci vorranno molti decenni per scalfire veramente i modelli culturali maschili e patriarcali. A Liberazione avvenuta, infatti, in alcune città liberate le donne sono state escluse da molte sfilate partigiane. Elsa Oliva, comandante di una brigata, col titolo di tenente, racconta “Nella lotta di liberazione non sempre la donna era accettata come lo sono stata io. Anche nelle formazioni dei garibaldini la donna serviva per lavare, rammendare, al massimo fare la staffetta. E rischiava più dell’uomo, perché le staffette rischiavano moltissimo: io avevo un fucile per difendermi, ma la staffetta doveva passare tutte le file, andare in mezzo al nemico, disarmata, e fare quello che faceva. E se era presa….”

Le donne sono le protagoniste principali (non uniche) anche della Resistenza civile. Alcune loro azioni di massa ottengono risultati estremamente importanti da un punto di vista strategico e politico. Due esempi: le donne che, nella Napoli occupata del settembre 1943, impediscono i rastrellamenti degli uomini, facendo svuotare i camion tedeschi già pieni, e innescando così la miccia dell’insurrezione cittadina. Ancora, le cittadine di Carrara, nel luglio 1944, resistono agli ordini di sfollamento totale impedendo ai tedeschi di garantirsi una comoda via di ritirata verso le retrovie della linea Gotica. 

Durante la Resistenza si sono intrecciati, antifascismo e femminismo, e un forte appello alla bella politica, fatta di onestà e serietà, inestricabilmente connessa con la responsabilità, individuale e collettiva, che rimane una costante nelle storie di tante. “Sono ex prof, ex tante altre cose, ma non ex partigiana: perché essere partigiani è una scelta di vita”, dichiarò Lidia Menapace, un’altra grande figura di donna impegnata fino alla fine dei suoi giorni.

 La lotta di liberazione delle donne dal nazifascismo è stata l’inizio dell’emancipazione femminile. Credendo in un futuro migliore, con il loro coraggio, lo resero possibile. Noi siamo l’avvenire per il quale hanno lottato. A loro la nostra immensa riconoscenza. Per sempre.

Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit. Ut elit tellus, luctus nec ullamcorper mattis, pulvinar dapibus leo.

https://www.dols.it/2024/04/25/25-aprile-la-liberazione-delle-donne/?fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTEAAR0obhtFv59yzmGcMkzThisiH5ovzyN3F8lyPo3Wkmn4Z1HuZufny2_WHC8_aem_AeDUNVI2u9XBWzBWKd2doFKqEc3Yap6O36cuQA0S5EX-cA5i4-iz

lunedì 22 aprile 2024

Continua l'attacco alla libertà delle donne

Il giorno prima della votazione in Parlamento del disegno di legge 19/2024  “Disposizioni urgenti per l'attuazione del PNRR”, viene presentato da Fratelli d'Italia un emendamento in cui si prevede che le Regioni nella riorganizzazione dei Consultori possono “avvalersi di soggetti del Terzo Settore che abbiano qualificata esperienza nel sostegno alla maternità”. 

I Consultori sono nati come luoghi di prevenzione ed erogazione di servizi rivolti alle singole persone, ad adolescenti, alle coppie ed alle famiglie, offrono informazione, accoglienza, consulenze e prestazioni specialistiche sui temi delle relazioni, della contraccezione, della salute sessuale e riproduttiva. Dopo l'età dell'oro, hanno vissuto una stagione di “menefreghismo” che ne ha prodotto lo “svuotamento”: poche risorse investite, chiusure, accorpamenti, mancanza di personale, obsolete strumentazioni, riduzione dei servizi erogati e degli orari. Fanalino di coda del Servizio Sanitario hanno favorito la nascita e la crescita dei Consultori privati.

A distanza di cinquanta anni i Consultori andrebbero ripensati e riorganizzati anche alla luce dei cambiamenti sociali e culturali avvenuti. A partire dall'educazione all'affettività ed alla sessualità di ragazze e ragazzi che spesso avviene attraverso la rete e i suoi contenuti pornografici devastanti. 

Invece furbescamente vengono inseriti [con quale urgenza ?] soggetti del Terzo Settore come i ProVita, noti antiabortisti... 

Le donne si rivolgono ai Consultori per interrompere una gravidanza dopo aver valutato l'impossibilità di sostenere una maternità. L'equipe, con cui le donne sostengono un colloquio per capire i motivi della scelta, può avvalersi di eventuali collaborazioni, se ritenute necessarie, non generalizzate e fatte poi da soggetti la cui qualificata competenza deve essere verificata [e poi da chi?]. E' una pressione, il tentativo di interferire nella scelta delle donne e colpevolizzarle in un momento delicato e in un luogo in cui andrebbero accolte e sostenute. 

La presenza di questi “soggetti” nei Consultori rappresenta un ennesimo attacco alla legge 194 e la messa in discussione della autodeterminazione delle donne sul proprio corpo. La maternità deve essere voluta, responsabile e consapevole, non imposta come destino da una cultura arcaica. 

Se poi attraverso queste forzature si pensasse di risolvere il problema della natalità, sarebbe aggiungere alla furbizia la beffa. Serve un nuovo welfare, asili nido, conciliazione famiglia lavoro, congedi parentali, lavoro stabile e ben retribuito... 

Ed ancora una volta il corpo delle donne viene strumentalizzato e usato a fini politici.

Dulcis in fundo

Sul nostro territorio (Assago, Buccinasco, Cesano Boscone, Corsico, Cusago) con una popolazione di 100.000 abitanti dovrebbero esserci 5 Consultori, uno ogni 20.000 abitanti. Oggi ce n'è uno solo, a Cesano Boscone, aperto solo alcuni giorni.

giovedì 11 aprile 2024

LE DONNE NON SANNO SCRIVERE D’ALTRO CHE D’AMORE, PER FORTUNA Giulia Caminito,

Ho letto su Doppiozero questo articolo di Gianni Bonina e anche il dibattito che ne è conseguito.

Il primo pensiero è la grande confusione, confusione tra scrittrici molto diverse tra loro, confusione rispetto al loro pubblico, confusione rispetto alla storia della scrittura delle donne e l’elemento amoroso/sentimentale.

Intanto vengono messe insieme scrittrici diversissime, sia quelle la cui scrittura ha una vera connotazione di genere romance come Erin Doom sia altre che con questo non c’entrano nulla, per esempio Viola Di Grado. Sfido a leggere “Fuoco al cielo” e a tornare qui per parlarne come di un romance, anche se tratta di una relazione amorosa.

Seguendo questo criterio allora dovrebbe essere una romance anche “Il colibrì” di Sandro Veronesi? Mi chiedo.

Sappiamo tutte che dai secoli dei secoli la scrittura delle donne viene definita romantica, rosa, femminile e quindi di secondo livello. Non a caso Ginzburg e Morante volevano essere chiamate ‘scrittore’. Perché le scrittrici per i critici erano quella cosa lì, e basta.

Nell’articolo mi pare si segua di pari passo esattamente questa solita e quindi banale constatazione. Le donne scrivono libri sentimentali e vendono libri. Stessa cosa che si è sempre detta anche delle nostre maestre.

Ciò che disturba è il fatto che dopo molto tempo non ci sia la capacità di evolversi nelle opinioni e che si senta la necessità di ripetersi senza mettere in dubbio nulla di questa ripetizione, ciclica e snervante.

Di recente ho scritto un articolo sulla morte del romanzo (che uscirà su La Stampa) e anche lì sono andata a spulciare i precedenti articoli dei nostri critici e scrittori che si lamentavano di questo decesso, dicendo sempre le stesse cose, a distanza di qualche anno, preoccupandosi sempre di ribadire che però loro vanno in direzione altra, di segnalare chi ancora fa il grande romanzo, e cioè altri uomini.

L’articolo ci dice alcune verità però, che andrebbero ragionate in maniera più lucida invece di buttare nomi a caso e generalizzare.

Intanto sì, oggi il mercato del libro lo reggono le lettrici e c’è un’altra evidente novità segnalata dai dati della lettura, e cioè che lo reggeranno a lungo, perché la fascia che ha perso più punti percentuali in termini di lettura è quella degli adolescenti maschi, sono loro che stiamo perdendo in questi anni, che non vanno più in libreria o ci vanno molto poco.

Quindi perché non chiedersi il contrario? Perché non chiedersi cosa sta succedendo ai lettori uomini di varie età? Sono schiacciati da questa massa di autrici e dalla loro produzione sentimentale? È un po’ sciocco fermarsi a questa constatazione.

Il problema è più ampio e più difficile da interpretare.

Altro punto, i romanzi che vendono sono tutte scartoffie? O sono scartoffie quando li vendono le donne? La vendita di un libro ne fa la sua qualità? Se è tanto non vale molto, se è poco vale di più? Sono questi i criteri sensati di un’analisi critica contemporanea?

Certo, è vero che negli ultimi anni una grande scrittrice ha varcato i confini nazionali, ed è Elena Ferrante, lei ha posto un trend visibile, evidente, che riguarda il racconto di figure femminili e delle loro relazioni all’interno di un contesto storico e sociale per loro svantaggioso. È vero che molti editori italiani ed esteri hanno quindi cercato di pubblicare romanzi in linea con questo trend. Ma veramente vogliamo ridurre la scrittura di Ferrante a una operazione a tavolino di vendita? Siamo ancora fermi lì? Nonostante tutta la critica femminista che in questi anni ne ha spiegato il valore? Perché non la leggete questa benedetta critica femminista, signori?

Inoltre, sulla questione dello scrivere d’amore. Anche qui propongo di leggere di più e di interpretare di più.

Esiste il filo rosso nella scrittura delle donne che riguarda il sentimento, questo è certo.

Potrei fare tre esempi di scrittrici a cavallo del Novecento che in pochi leggono come Amalia Guglielminetti, Pia Rimini e Matilde Serao. Tre scrittrici diverse che tra le molte cose scritte hanno scritto d’amore. E come ne hanno scritto? Se le torniamo a leggere ci rendiamo conto che con stili diversi, registri ironici o drammatici, giochi letterari o scene teatrali, quello che raccontano si chiama “mal d’amore”.

Il mal d’amore non va confuso con il semplice anelito all’altro, con la ricerca dell’amore romantico, con la voglia di unirsi a un uomo, ma va letto come bisogno sociale, bisogno che le donne hanno avuto e ancora oggi hanno culturalmente e socialmente di essere amate, di essere riconosciute, di essere soggetti inquanto amate.

La donna ha sofferto per secoli di un posizionamento sociale non solo svantaggioso ma anche violentemente escludente, in cui la relazione con l’uomo spesso era l’unica fonte di visibilità possibile. Se eri amata, allora esistevi.

Mentre gli uomini dicevano “penso quindi sono”, le donne dovevano dire “sono pensata quindi sono”.

Non è questo che ci racconta Jane Austen? Non è questo che ci racconta Alcott, non è questo che ci racconta Katherine Mansfield quando parla della galera che era il matrimonio borghese e ci fa apparire le sue donne tragicamente felici perché amate e poi tragicamente infelici perché abbandonate o tradite? Non è questo che racconta con grande precisione proprio Elena Ferrante ne “I giorni dell’abbandono”?

Le donne si sono dibattute tutto questo tempo nel cercare la propria autonomia sentimentale, la propria identità a prescindere, sia dall’essere amate, che dall’essere madri, per poter amare e diventare (o non diventare) madri a propria scelta, guidate dalla propria libertà e non per essere accettate dal mondo.

Avete letto, signori, “È stato così” di Natalia Ginzburg? Uno dei migliori racconti che abbiamo sul mal d’amore, un tormento costante e avvilente di una ragazza che non verrà mai riconosciuta dal marito, mai, e che tenterà in ogni modo di venire notata, rappresentata, pensata. E la sua pazzia, il suo delirio, si scioglieranno proprio in questa assenza di parità. L’amore è sentito come sentimento paritario, come sentimento in cui si esiste insieme all’altro, e per secoli le donne sono state le mogli tradite, le amanti dimenticate, le suore confiscate alla società, le donne pubbliche da usare per lo sfogo sessuale. Non sono state solo questo, ma spesso questi sono i ruoli anche linguistici che hanno ricoperto. Vogliamo quindi pensare che non avrebbero dovuto scrivere di questo? Vogliamo dirci che questo nodo identitario le donne non avrebbero dovuto affrontarlo nella loro narrativa?

O vogliamo constatare che come sono state silenziate in altri aspetti anche in questo, quello della scrittura, pur di non specchiarsi nel terrore che crea il mal d’amore, nel senso di colpa che può generare, si sono e si continuano a relegare le prove di scrittura delle donne come forme di sentimentalismo di ampio consumo?

E perché, signori, secondo la vostra linea, gli uomini non vogliono consumare questo tipo di narrativa, cosa non li attrae lì? Ce lo siamo chiesto? Cosa li spaventa del sentimento, cosa ancora gli fa credere che scriverne sia degradante?

È vero che le donne vanno in libreria più degli uomini, ed è anche vero che tutti i romanzi osannati dai critici, che sono per la maggior parte scritti da altri uomini, sono le donne ad averli letti di più. Vogliamo dirci che tutti i vari thriller e gialli, che nell’articolo di cui sopra vengono indicati come produzioni di consumo maschile, non vengano portati in classifica dalle donne?

La verità, ed è tempo venga affrontata, è che le donne sono culturalmente abituate a leggere tutto, ciò che è scritto da uomini, da donne, da persone non binarie, da chiunque, perché hanno sempre fatto così, hanno sempre studiato sui testi degli uomini, e ancora lo fanno, hanno sempre amato questi testi, hanno sempre saputo comprenderne il valore letterario. C’è da chiedersi quando, dio santo, accadrà lo stesso per voi, signori.

https://www.letteratemagazine.it/2024/04/03/le-donne-non-sanno-scrivere-daltro-che-damore-per-fortuna/?fbclid=IwAR0JKBoh5xVc7I6LbKljtAGMrOVEbYwsCpmV1BtExjhAwtNLqy_ywVhhf1Q_aem_AZqTS6G7Dgzfoeg7Zy9KHxfVx7sB217DtdcdVR7RvCZ-X16EQm3qvQbqgQWCHw6Cqvut3sVMr6jfv_v5Uc2g3GUI


venerdì 5 aprile 2024

Importanza della Medicina di Genere. La parola alla dr.ssa Elena Ortona di Valentina Capati

Nata negli anni Novanta, la medicina di genere ha una storia giovanissima. Facciamo il Punto con la dirigente Centro di riferimento per la medicina di genere dell’Istituto superiore della Sanità

Importanza della Medicina di Genere. La parola alla dr.ssa Elena OrtonaGiovedi, 28/03/2024 - Nata negli anni Novanta, la Medicina di Genere ha una storia giovanissima. La medicina dovrebbe essere la scienza illuminata dal faro della buona pratica, ma a che titolo lo è, allora, se la sua è una storia di dimenticanza del corpo femminile? Lo stesso corpo che, invece, è stato l’oggetto di un ossessivo controllo politico, è assente nella storia della scienza medica.

Abbiamo interpellato su questo tema la dottoressa Elena Ortona, che dirige il Centro di riferimento per la medicina di genere dell’Istituto Superiore della Sanità.

“Con Medicina di Genere intendiamo definire lo studio dell’impatto che il genere ed il sesso hanno sullo stato di salute di ogni persona. Dove per sesso intendiamo l’insieme di caratteristiche biologiche, i cromosomi, le gonadi, gli ormoni di ognuno. Mentre il genere è ciò che distingue a livello sociale il maschile ed il femminile ed i ruoli e le relazioni che ai due generi sono ascritti. È ovviamente un’ottica, quella di genere, trasversale che interessa tutte le specialità mediche. L’interesse nei confronti della Medicina di Genere è nato agli inizi degli anni Novanta, ma una vera e propria considerazione di questa necessaria ottica si comincia ad avere nel 2018, quando all’Istituto Superiore della Sanità in fase di riordino ha istituito il Centro per la Medicina di Genere che ha come obiettivo quello di promuovere, condurre e coordinare attività in ambito sanitario che tengano conto dei differenti bisogni delle persone”.

Quella delle donne e del corpo delle donne nella storia della medicina è una storia di sotto rappresentazione e svantaggio. A venire meno nella decodificazione del corpo a scopo terapeutico non è stata solo la differenza tra i sessi, ma l’intera soggettività femminile, la cui raffigurazione è stata assoggettata all’ottimizzazione di tempi e all’agilità dei processi.

“Lo sviluppo della rete è stata fondamentale per fare in modo che anche la politica comprendesse fino in fondo l’importanza della Medicina di Genere. Nel 2018 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale, ed è stata la prima volta nel mondo - la legge 3/2018 “Delega al Governo in materia di sperimentazione clinica di medicinali nonché disposizioni per il riordino delle professioni sanitarie e per la dirigenza sanitaria del Ministero della Salute”. L’articolo 3 di questa legge, “Applicazione e la diffusione della Medicina di Genere nel Servizio sanitario nazionale”, richiedeva la predisposizione di «un Piano volto alla diffusione della Medicina di Genere mediante divulgazione, formazione e indicazione di pratiche sanitarie che nella ricerca, nella prevenzione, nella diagnosi e nella cura tengano conto delle differenze derivanti dal genere, al fine di garantire la qualità e l’appropriatezza delle prestazioni erogate dal Servizio sanitario nazionale in modo omogeneo sul territorio nazionale» ricorda Ortona.

La sperimentazione non fluttua

Uno dei temi su cui il Centro di riferimento per la Medicina di Genere è al lavoro è la ricerca.

“E’ necessario strutturare dei percorsi di ricerca che tengano conto delle differenze tra i generi e arruolare soggetti (che siano animali o umani) di entrambi i sessi al fine di analizzare i risultati in maniera disaggregata, proprio per metterne in evidenza le differenze soprattutto in ordine all’aspetto farmacologico” ci spiega ancora la direttrice del Centro.

“Nella maggior parte degli studi farmacologici, specialmente negli studi sulle prime fasi che riguardano la tossicità e la tollerabilità della sostanza vengono quasi sempre arruolati solamente soggetti di sesso maschile, questo per evitare la variabilità data dalle fluttuazioni ormonali tipiche del sesso femminile. Ma anche per evitare danno ad una eventuale futura gravidanza”.

La crucialità di quanto emerge è evidente soprattutto alla luce del fatto che sono state le donne ad accusare la maggior parte degli effetti avversi nei farmaci che sono stati tolti dal commercio nel corso della storia.

Perché questo? Perché di quei farmaci venivano valutate tossicità e tollerabilità su un corpo che comunque è completamente differente da quello delle donne, non solo per dimensione e per peso, ma proprio per composizione.

Le donne si ammalano in maniera differente dagli uomini?

L’abbiamo chiesto ancora alla Dottoressa Ortona: “Molte malattie hanno una incidenza indicativa. Prendiamo per esempio quelle autoimmuni che per incidenza sono l’esempio paradigmatico; tra queste il Lupus Eritematoso Sistemico o la sindrome di Sjögren. Hanno un rapporto donna/uomo davvero sbilanciato anche a livello di dieci/quindici a uno, sembrano delle malattie esclusivamente femminili , ma riguardano anche molti uomini. Perfino le cause di morte per queste malattie possono essere diverse e anche la risposta ai trattamenti. Questo aspetto è fondamentale perché dobbiamo comunque sapere che un farmaco può avere degli effetti differenziati. Per esempio i farmaci biologici, i farmaci anti TNF, hanno un effetto diverso in uomini e donne. Gli uomini rispondono meglio, hanno una risposta più efficace a questi farmaci. Come anche ai farmaci sintetici, al methotrexate. La differenza nella risposta deve comunque essere tenuta da conto quando si fa un trattamento per la malattia, le cui manifestazioni anche possono essere diverse. Le differenze possono essere non solo nell’incidenza ma anche nel decorso, nella prognosi, nelle manifestazioni cliniche, nella risposta alla terapia. Possono essere tantissime. La medicina di genere studia queste differenze, le mette in evidenza tramite una ricerca epidemiologica che per prima cosa osserva le differenze, poi tramite una ricerca di base va a studiare proprio i meccanismi e i motivi per cui esistono queste differenze che possono essere motivi genetici ma anche motivi legati agli ormoni, legati all’epigenetica. Come anche il microbiota e gli stili di vita, la dieta, l’esposizione differente a sostanze tossiche dovuto anche a motivi lavorativi, a motivi occupazionali. Vanno studiati i fattori responsabili delle differenze e solo allora potremo veramente indicare quali possono essere prevenzione, diagnosi e cura equi, che diano quindi agli uomini e alle donne le stesse possibilità di guarire”.

“Anche se pensiamo agli studi preclinici: qualsiasi studio che si effettua sulle cellule, proprio per andare a valutare l’effetto di un ambiente, di una radiazione ultravioletta o comunque una sostanza tossica o un farmaco sulle cellule. Non viene quasi mai tenuto conto del sesso dell’organismo da cui queste cellule vengono prelevate e questo è un altro aspetto veramente importantissimo perché si è visto molto bene che cellule femminili e cellule maschili hanno una risposta differente allo stress: le cellule femminili sono di più, sono più resilienti, mettono in atto una serie di meccanismi che portano alla loro sopravvivenza, insomma si difendono meglio. Le cellule isolate da un organismo maschile, che siano animali che siano uomini, vanno più facilmente incontro a morte in presenza dello stesso stress. Non sono in grado di mettere in atto quei meccanismi di difesa e di protezione delle cellule femminili. Quindi di una stessa sostanza, se non si dichiara di che sesso è la cellula su cui viene testata si può avere un risultato completamente diverso. Questo porta a dei bias importantissimi. Probabilmente la ricerca non è fatta nella maniera più corretta? Questo è uno dei fattori per cui le donne sono state penalizzate. Anche gli studi sugli animali vengono arruolati animali di sesso maschile sempre per evitare le fluttuazioni ormonali. Si usano i maschi che sono sempre uguali e quindi non hanno bisogno di determinati esami, di analisi. In realtà le risposte sono completamente differenti. Vengono arruolati sempre in maggioranza gli uomini anche nelle sperimentazioni inerenti i farmaci che poi devono essere utilizzati per le malattie autoimmuni la cui incidenza è quasi esclusivamente a carico del sesso femminile”.

Bisogna ancora lavorare tanto, fare tanta formazione, tanta comunicazione.

D’altra parte in medicina il nostro corpo ha a malapena 40 anni.

https://www.noidonne.org/articoli/importanza-della-medicina-di-genere-la-parola-alla-drssa-elena-ortona.php?fbclid=IwAR14NyJSVXroER0BqFbMeoah7lVLIluiYwT2Ex5v_6h9gvdaJKNPLY4mW2w_aem_AcUXL2JC2s1olhHhMp9h9CZpYn80vsaL30f5vN-

martedì 2 aprile 2024

Nadia Murad, sopravvissuta alla schiavitù sessuale dell’Isis e premio Nobel per la pace, nominata donna dell’anno dal Time articolo e traduzione di Patrizia Cordone©

 E’ un riconoscimento prestigioso dell’autorevole rivista conferito a marzo annualmente per la valorizzazione di donne di diversi settori, le quali si stanno distinguendo per la costruzione di un mondo più equo, a misura femminile, creando i ponti attraverso le generazioni, le comunità ed i confini geografici.

Nel 2018 insignita del premio Nobel per la pace Nadia Murad é la giovane yazida, rapita e schiavizzata sessualmente dall’Isis nel 2014, che si è liberata e rifugiata in Germania quello stesso anno. Da allora non ha mai smesso di far sentire la sua voce, non soltanto per mera testimonianza, ma quale attivista infaticabile presso le sedi istituzionali internazionali, quali l’Onu, affinché siano garantite le indagini, le incriminazioni ed i processi all’Isis, a causa delle violenze sessuali perpetrate alle donne, soprattutto della sua comunità yazida. L’altro obiettivo del suo impegno é il riconoscimento dei risarcimenti alle donne violate nei contesti di guerra, incluse le yazide come lei. Nel 2018, anno del conferimento del premio Nobel per la pace a lei, questo sito le ha dedicato l’articolo “La coraggiosa Nadia Murad Basee Nobel per la pace” puntualmente aggiornato.

In occasione della sua nomina a “Donna dell’anno” ha rilasciato al Time un’intervista, che qui trovate tradotta in italiano:

TIME ha nominato Nadia Murad, fondatrice e presidente della Nadia’s Initiative, come una delle donne dell’anno 2024. L’elenco riconosce leader straordinari che lottano per un mondo più equo. Nella sua intervista alla rivista (Nadia Murad’s Mission to Protect Survivors | TIME) ha parlato del suo desiderio di giustizia e di “fine all’uso sistematico della violenza contro donne e ragazze“.

Nadia Murad sognava di gestire il proprio salone di bellezza a Kojo, un piccolo villaggio agricolo nel nord dell’Iraq: Nella mia immaginazione, il salone era uno spazio sicuro in cui donne e ragazze potevano condividere idee, imparare cose e avere qualcosa per se stesse“. Quel sogno è stato infranto, quando i combattenti dello Stato Islamico hanno invaso il suo villaggio nel 2014, con l’intento di distruggere una comunità yazida che chiamavano infedeli. Sua madre, i fratelli, i parenti e gli amici furono uccisi. Nadia Murad, allora 21enne, era una delle quasi 6.000 donne e bambini yazidi tenuti prigionieri e sottoposti a stupro per quasi tre mesi. Alla fine è scappata e si è reinsediata in Germania nel 2015. Oggi, trentenne, incanala quel trauma nella difesa dei sopravvissuti al genocidio e alla violenza sessuale: “Quando sopravvivi a una guerra e conosci così tante persone che non ce l’hanno fatta, ti senti responsabile di fare qualcosa per loro“.

In qualità di presidente dell’organizzazione no-profit Nadia’s Initiative esercita pressioni sui governi e sulle organizzazioni internazionali per conto di coloro che sono in crisi, concentrandosi sulla riforma politica e sulle risorse per la ricostruzione della comunità. I suoi sforzi hanno avuto eco in tutto il mondo:il suo libro autobiografico del 2017 è diventato un best seller e nel 2018 le è stato assegnato il Premio Nobel per la pace. Murad, che incontra spesso altri sopravvissuti, dice che tutti condividono il desiderio di “giustizia e di vedere la fine di questo uso sistematico della violenza contro donne e ragazze”.

A dicembre è emersa come principale attore in una causa intentata con circa 400 americani yazidi contro Lafarge, il conglomerato industriale francese del cemento che nel 2022 si è dichiarato colpevole di aver pagato milioni all’Isis per una fabbrica in Siria. L’avvocata per i diritti umani Amal Clooney, collaboratrice di lunga data e sostenitrice di Murad, ha intentato una causa ai sensi delle disposizioni civili della legge antiterrorismo. “Le aziende che sostengono l’Isis o altri gruppi che la pensano allo stesso modo devono essere ritenute responsabili” afferma Murad.

Oltre al suo sostegno Nadia Murad sarà la prima della sua famiglia a laurearsi quest’anno, con una laurea in sociologia presso l’American University. Dopodiché non vede l’ora di provare piccole gioie come “più capelli e trucco“, dice sorridendo. “So che non ho potuto aprire il mio salone, ma sono orgoglioso di dire che almeno posso aiutare altre donne e ragazze in Iraq a farlo“.


traduzione di Patrizia Cordone© titolare di questo sito L’Agenda delle Donne – copyright – tutti i diritti riservati

https://lagendadelledonneilsitodipatriziacordone.wordpress.com/2024/03/07/nadia-murad-sopravvissuta-alla-schiavitu-sessuale-dellisis-e-premio-nobel-per-la-pace-nominata-donna-dellanno-dal-time/?fbclid=IwAR1yvKAZ9UjOzD-4moZCAyvdyKM

martedì 19 marzo 2024

I nuovi papà chiedono il congedo per stare con i figli: triplicate le richieste di SIMONA SIRIANNI

Se nel 2013 erano 51.745 nel 2023 sono diventati 172.797. Un dato molto importante vista l'importanza di condividere le responsabilità tra madri e padri per impedire che la donna sia obbligata a dimenticarsi la carriera

Non più solo mamme tra culle, biberon e pannolini: sempre più papà scelgono di restare a casa ad accudire i figli appena nati. E questo succede, secondo Save the Children che ha diffuso una ricerca su dati Inps in occasione del 19 marzo, festa del papà, grazie alla legge sui congedi parentali. Se nel 2013, infatti, poco meno di 1 padre su 5 aveva chiesto il congedo, nel 2022 il tasso di utilizzo del congedo di paternità è più che triplicato. Un dato molto importante vista l’importanza di condividere le responsabilità tra madri e padri per impedire che la maternità continui a essere ostacolare le donne che vogliono lavorare.

Com’è cambiato il congedo di paternità

Qualcosa, quindi, si muove nell’universo della paternità, anche se sono ancora le donne a dover rinunciare alla carriera o addirittura al posto di lavoro perché il carico di cura è sempre in maniera del tutto sbilanciata sulle loro spalle. Lo squilibro di genere tra i due genitori nella cura dei figli c’è sempre, ma i dati mostrano che oggi, i padri che usufruiscono del congedo di paternità a dieci anni dalla sua introduzione, sono ben 172.797 rispetto ai 51.745 del 2013, con poche differenze a seconda che si tratti di genitori del primo (65,88%), secondo o successivo figlio (62,08%). Questo è dovuto anche ai vari cambiamenti che la misura ha avuto negli anni: all’inizio, infatti, prevedeva un solo giorno obbligatorio e due facoltativi, attualmente ne garantisce 10 obbligatori e uno facoltativo ed è fruibile tra i due mesi precedenti e i 5 successivi al parto.

Chi ne usufruisce di più

L’aumento di chi fa richiesta di questo diritto all’astensione lavorativa si registra in tutta Italia, ma al Sud il tasso si abbassa molto, rispetto al Nord. I numeri più elevati di chi ne usufruisce, superiori all’80%, si registrano nelle province di Bergamo, Lecco, Treviso, Vicenza e Pordenone. A utilizzare maggiormente il congedo sono gli uomini nelle fasce d’età comprese fra i 30 e i 39 anni e fra i 40 e i 49. Inoltre, è più probabile che il padre usufruisca del congedo di paternità se lavora in aziende medio-grandi.

Chi ha un contratto vero lo chiede di più

Purtroppo, esistono delle disuguaglianze e queste dipendono dal tipo di contratto che si ha. Tra coloro che hanno un contratto di lavoro più stabile le richieste sfiorano il 70%, tra quelli con contratto a tempo determinato scende al 35,95%, mentre tra gli stagionali arriva solo al 19,72%. Per quanto riguarda le fasce di reddito, invece, l’utilizzo del congedo di paternità è più diffuso tra i padri con un reddito compreso fra i 15mila e i 28mila euro (73,3%) e fra quelli con reddito superiore a 28mila euro e inferiore a 50mila (85,68%). Salendo ancora la correlazione si interrompe. Permettersi nido e baby sitter aiuta.

Verso una maggiore condivisione di responsabilità

Il coinvolgimento dei padri nella cura dei figli, quindi, sembra stia cambiando anche in Italia: per sostenere questo cambiamento, però, sostiene Giorgia D’Errico, Direttrice Affari pubblici e Relazioni istituzionali di Save the Children, è necessario andare nella direzione di un congedo di paternità per tutti i lavoratori, non solo i dipendenti fino ad arrivare all’equiparazione con il congedo obbligatorio di maternità. Coinvolgere e incoraggiare i nuovi padri nella piena condivisione della cura dei figli, è al momento l’unico modo di eliminare uno de più tanti ostacoli che ancora oggi bloccano lo sviluppo professionale delle madri nel mondo del lavoro.

https://www.iodonna.it/attualita/famiglia-e-lavoro/2024/03/18/congedo-paternita-per-stare-con-i-figli-triplicate-le-richieste/?fbclid=IwAR1q9HFvZzfnhh9XhhjJcP9FGaoiViob2ifFng7O0LP5rU0EAPgmCec6quE