L'immagine della donna nei media




Pubblicato  novembre 11, 2013 da snoqfactory



Pubblichiamo il testo presentato da Alessandra Bocchetti per SNOQ Factory all’audizione sul “Codice di autoregolamentazione recante linee guida sulla corretta rappresentazione dei generi nel sistema dei media” del Sottogruppo comunicazione e rappresentazione dell’immagine femminile nei media istituito nell’ambito della Task Force per la violenza contro le donne (8 novembre 2013).

Per prima cosa vogliamo ringraziare la Commissione per il suo interesse al nostro punto di vista.

La violenza contro le donne è cosa antica, una costante della storia, tuttavia non rientra in quelli che possiamo definire comportamenti istintivi, naturali, è sempre radicata nella cultura e nella storia. Picchiare o uccidere una donna 500 anni fa non ha lo stesso senso che ha oggi.

Per contrastare la violenza quindi è necessario capire da dove proviene, cosa racconta, cosa pretende oggi. Perché la violenza ha sempre un senso. Oggi una donna ha accesso all’istruzione, tutte le professioni le sono possibili, nessuno ha più il diritto di picchiarla, amministra i suoi beni, vota, viaggia, sceglie con chi vivere e può cambiare idea. Meno di cento anni fa nel nostro Paese tutto questo era impensabile.

Ma vogliamo sottolineare un altro passaggio importante che spiega il senso della violenza oggi. Oggi una donna può dire a un uomo “tu sarai padre se lo voglio io, quando lo voglio io”. Questa frase non tutte le donne sono decise a pronunciarla, tuttavia dobbiamo tener presente che è una possibilità del nostro tempo. E questa frase è un colpo pesantissimo e definitivo all’assetto patriarcale ancora presente fortemente nella nostra società. Ora, se non riusciamo a valutare le implicazioni, le conseguenze e le reazioni consce e inconsce a questo fatto nuovo, non riusciremo né a capire, né a affrontare, né tantomeno a risolvere il triste fenomeno della violenza oggi. È quindi la libertà e la forza delle donne che scatena la violenza, che le fornisce un senso oggi. È dunque necessario cambiare paradigma. La lettura che vede l’uomo carnefice e la donna vittima, l’uomo forte e la donna debole, è frutto di un’analisi rudimentale e semplicistica.

La società in cui viviamo è ancora profondamente impreparata alla libertà delle donne. Quando diciamo società intendiamo dire che anche noi donne siamo impreparate alla nostra libertà e alle sue conseguenze. Può sembrare un paradosso ma non lo è.

Si tratta quindi di preparare la società tutta. Qui non si tratta di pari opportunità ma di un cambio di civiltà, a cui tutte e tutti siamo chiamati a contribuire. Un lavoro immenso e molto lento. Dovrà cambiare il racconto del mondo in cui viviamo e dovremo anche cambiare la forma di questo racconto. Per questo l’istruzione, la formazione, l’informazione hanno un’importanza capitale.

La scuol , la televisione, i mezzi di comunicazione non danno ancora conto di questo cambiamento, al contrario sembrerebbero occupati a resistergli.

La scuola italiana continua a raccontare un mondo di soli uomini. Se prendiamo un’antologia della letteratura italiana ci accorgiamo del femminicidio in azione: le donne presenti ”sopravvissute” sono pochissime.

In televisione poi le donne muoiono tutti i giorni a tutte le ore. Ci è capitato di guardare alle due del pomeriggio sul secondo canale Rai tre telefilm uno di seguito all’altro, il primo raccontava di una bambina sequestrata da un pedofilo assassino, il secondo di una donna maltrattata e poi strangolata, nel terzo una donna veniva annegata in una piscina. È stata un’esperienza allucinante anche perché, trovandoci in fascia protetta, irrompeva di tanto in tanto la pubblicità che raccomandava pannolini, merendine, latte in polvere.

Possono i bambini assistere a tutto questo? E le bambine? Ci si chiede chi compera questi programmi, chi li programma, chi sceglie le fasce orarie, cosa fa la commissione di controllo? Per contro esistono anche i programmi che affrontano il tema della violenza, che parlano delle morte ammazzate, delle loro storie, con rammarico, inscenando un cordoglio generale. Anche questi programmi, a nostro avviso, sono dannosissimi.

Insomma, oggi la violenza contro le donne fa spettacolo, tanto che si rischia l’assuefazione scivolando verso una sorta di autorizzazione involontaria. Il racconto della violenza nei mass media è spettacolarizzato. Questa volontà così tenace di mostrare la donna vittima è così reiterata da diventare una sorta di perversa pedagogia. “Potrebbe succedere anche a te” questo ne diventa il messaggio neanche troppo segreto, che è insieme monito e minaccia. La violenza contro le donne è troppo presente in tutti i mezzi di comunicazione tanto che ci si rende conto di vivere una vera e propria Controriforma in risposta proprio alla libertà che le donne hanno conquistato.

La violenza contro le donne è un problema che va affrontato in modo laterale, non servono raccomandazioni, né consigli, né prediche, né racconti pietosi, questo vale per tutti i mezzi di comunicazione. Noi pensiamo che solo la stima di sé possa salvare le donne dalla violenza, perché le renderà capaci di riconoscere la violenza prima che accada, le aiuterà a non affidarsi ciecamente e a contare sulle proprie forze. Il resto, le leggi, i provvedimenti, l’ascolto possono aiutare, ma la stima di sé è l’essenziale. Per questo tutti i mezzi di formazione e informazione sono determinanti.

Le donne, le ragazze, le bambine hanno bisogno di storie di donne, di figure femminili forti che consentano loro un’identificazione positiva. Hanno bisogno di essere raccontate fuori da quel senso aggiuntivo che troppo spesso le significa. Hanno bisogno di raccontarsi anche con allegria fuori dall’immaginario maschile. Troppo spesso questo immaginario molto forte le connota come oggetto di desiderio ma le mette in trappola.


Fuori di questa trappola la vita sarà più facile per tutti, perché più vera. Basta lacrime.


«Il femminicidio è l’ultimo atto di una filiera di comportamenti, pensieri, stereotipi che vengono da molto lontano»

Cambiamo l’immagine delle donne Cominciamo noi della pubblicità

di Alberto Contri



I 10 punti proposti giorni orsono dalle giornaliste della “27esima Ora” costituiscono una vera boccata d’ossigeno per l’impostazione che auspica una modalità rigorosa, asciutta e sensibile nel fare informazione su temi delicati, come ad esempio la violenza sulle donne. Assai confortante, poi, è lo scoprire che le 10 riflessioni coincidono quasi alla lettera con quelle alla base della grande campagna sulla parità di genere che la Fondazione Pubblicità Progresso proporrà per il biennio 2014-2015, ritenendo il femminicidio l’ultimo atto di una filiera di comportamenti, pensieri, stereotipi che vengono da molto lontano.


Promossa su impulso delle donne presenti nel CdA della Fondazione in rappresentanza degli utenti pubblicitari e delle agenzie (Giovanna Maggioni, UPA – Rossella Sobrero, Assocom – Donatella Consolandi – Unicom), si prevede che la campagna debba durare almeno due anni per poter incidere seriamente sul comune sentire. Nell’ideazione e nella produzione sono coinvolti Young & Rubicam, Burson Marsteller, Isobar, Istituto Piepoli, ComboCutFilm, MPG e Media Club. La campagna parlerà sia alle donne che agli uomini: le prime verranno invitate ad acquisire maggiore autostima, i secondi verranno invitati a riflettere sul fatto che privarsi della genialità femminile è puro autolesionismo.


Da un lato si proverà che sottovalutare la discriminazione verso il genere femminile è già una parte del problema, dall’altro si cercherà di promuovere un diffuso atteggiamento di valorizzazione delle diversità.


Sempre più convinti che non basta qualche spot di pochi secondi per modificare comportamenti o stereotipi radicati, anche questa nuova campagna prevede un uso massiccio dei social network, che ben si prestano a coinvolgere a fondo le persone. Tutte le nuove attività che negli ultimi anni Pubblicità Progresso ha messo in piedi grazie ad un generoso e professionale volontariato, oltre che al lungimirante sostegno della Fondazione Cariplo, verranno investite della responsabilità di promuovere l’ambizioso progetto. Si è già riunito il network Athena (i docenti universitari amici di Pubblicità Progresso, oltre 50 di altrettante università di tutta Italia) con l’obbiettivo di coinvolgere i propri studenti – a seconda delle facoltà – nell’ideazione di iniziative di marketing sociale non convenzionale, flashmob, video virali, corti, infografica, ricerche sociali, articoli, racconti.


La mediateca on-line di Pubblicità Progresso (che conta oramai oltre 2500 campagne sociali selezionate tra le più creative e performanti del mondo) offrirà spunti di confronto con quanto di meglio si fa nei vari Paesi per promuovere la parità. Cuore della campagna sarà un portale di servizio che aiuterà le donne (e anche gli uomini) a reperire aiuti e sostegni concreti nel campo del lavoro, della famiglia, della scuola, dell’educazione, dell’informazione, della cultura, dello spettacolo e anche sulla questione della violenza.


Stiamo coinvolgendo artisti, autori e cantanti (maschi e femmine) in una corale iniziativa in grado non solo di spingerli a trattare il tema, ma anche di raccogliere fondi da destinare a borse di studio per ragazze meritevoli che non hanno i mezzi per continuare gli studi.


Cercheremo di coinvolgere reti televisive, testate giornalistiche e di approfondimento nei moltissimi progetti collaterali, tra cui un libro con i racconti dei carcerati che hanno fatto violenza, così da essere aiutati a meglio comprendere i reconditi motivi delle loro azioni.


La campagna verrà presentata durante la nona Conferenza Internazionale della Comunicazione Sociale che si terrà a Milano all’Università IULM il 18 novembre, interamente dedicata alla parità di genere, e a cui parteciperanno ospiti da tutto il mondo. Un impegno enorme, svolto gratuitamente ma con molti più costi che in passato, motivo per cui faremo anche appello alle imprese sensibili alla CSR– segnatamente quelle della moda – perché aiutino Pubblicità Progresso in questo epocale progetto a favore del raggiungimento di quella reale parità di genere capace di far crescere la società.
 
Stereotipi sessisti humus di discriminazione e violenza



La presidente della camera è intervenuta ad un convegno intitolato «Convenzione di Istanbul e media». La Convenzione di Istanbul è il documento del Consiglio d'Europa per la prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne. La Convenzione ratificata dall’Italia ai sensi della legge 27 giugno 2013, n. 77. Nella Convenzione c'è scritto: «Le Parti adottano le misure necessarie per promuovere i cambiamenti nei comportamenti socio-culturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull'idea dell'inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini». (cfr. Blog No alla violenza sulle donne). Scopo del convegno era capire come i media possono contribuire all'applicazione della Convenzione di Istanbul.

Per l'applicazione della Convenzione, Laura Boldrini ha citato l'importanza di alcune questioni. Che il governo investa risorse finanziarie e materiali. Che gli obiettivi siano fatti vivere dai media. Nell'uso delle parole scelte dal giornalismo. Nel superamento degli stereotipi. Che la cura al linguaggio e l'avversione agli stereotipi sia avvertita come importante anche dagli uomini e la lotta alla violenza cessi di essere la questione di un genere. In una replica in video al dibattito seguito, Boldrini indica la necessità di un piano per l'occupazione femminile, perchè se esiste lo stereotipo della donna casalinga è anche perchè ancora troppe poche donne lavorano.

Del discorso della presidente, i giornali hanno evidenziato in particolare una battuta: «penso alla pubblicità, a certi spot italiani in cui papà e bambini stanno seduti a tavola, mentre la mamma in piedi serve tutti; oppure al corpo femminile usato per promuovere viaggi, yoghurt, computer. Spot così, vi assicuro, in altri Paesi europei ben difficilmente arriverebbero sullo schermo».

Questa battuta, apparentemente ovvia e facilmente condivisibile, ha scatenato una reazione virulenta. Soprattutto da destra e dall'area grillina, ma anche da giornalisti del Fatto o da ex giornalisti del Manifesto e di Liberazione. UAGDC ha titolato: «Tutti vogliono la mamma che serve a tavola. Il sessismo che unisce destra e sinistra». C'è chi ha ironicamente parlato di «Larghe intese sessiste».

Fatta la tara degli strepiti e degli insulti, gli argomenti usati contro l'affermazione della Presidente della Camera sono pochi e confusi.

Un'argomento consiste nella negazione del problema. Nello stesso intervento o in una sequenza di interventi della stessa persona, in uno dei tanti topic di FB, è possibile leggere che: 1) gli stereotipi nella pubblicità non esistono; 2) esistono, ma sono un riflesso della società; 3) esistono, ma non fanno nulla di male, i problemi sono altri. Dunque un intervento inutile. Ma un intervento inutile, sommario, banale dovrebbe passare inosservato. Invece proprio i sostenitori dell'idea che «i problemi sono altri» hanno comunque passato ore e giorni a contrastare con ostinazione la messa in discussione dello stereotipo della mamma che serve a tavola, come se proprio questo fosse un grave problema. Evidentemente lo è per chi, anche inconsapevolmente, ci tiene a conservare i ruoli tradizionali e nel vederli messi in discussione si sente attaccato nella propria identità. E nei suoi piccoli privilegi. Dire che i problemi sono altri, in ultima istanza, significa sostanzialmente dire che i problemi che riguardano le donne sono poco importanti.

La questione invece esiste sia nel senso che la pubblicità è influente nel riprodurre stereotipi sessisti, quindi cultura, sia nel senso che tali stereotipi concorrono nel favorire la discriminazione e la violenza. Le donne, fra impegni dentro e fuori casa, lavorano più degli uomini. Le donne guadagnano significativamente meno degli uomini. Le donne hanno a disposizione una quota molto minore di tempo libero rispetto agli uomini (2 ore e 37 minuti contro 3 ore e 36 minuti). Le donne si occupano delle faccende domestiche per 5 ore e 10 minuti al giorno, mentre gli uomini arrivano appena a 2 ore e 4 minuti. (Contaminazioni.info)

Negli stessi termini usati da Laura Boldrini il problema è spiegato da una esperta di pubblicità e comunicazione come Annamaria Testa. (...) “la pubblicità non nasce «nel vuoto». Rispecchia a e amplifica e semplifica gli usi e i costumi e i pregiudizi più diffusi. Si esprime all’interno del più ampio sistema dei media. Trasmette il gusto dei suoi committenti aziendali. Questo non vuol dire che la pubblicità sia innocente: ha responsabilità grandi proprio perché è efficace anche quando diffonde e rafforza modelli di ruolo arcaici, sistemi di disvalori, stereotipi deleteri” (...) cos'è che permette di definire "sessista" una pubblicità? Quali sono i campanelli d'allarme? Il tema è certamente delicato. "E' sessista - spiega Testa - una campagna che usa il corpo femminile come strumento di appeal sessuale per promuovere in modo non pertinente un prodotto (un pannello solare, un cibo, un programma software). Ma è sessista anche usare in maniera intensiva stereotipi che riducono l'identità delle donne all'essere "casalinghe" e basta. E' sessista la comunicazione che non mostra le donne come persone ma solo come automi che curano la casa e seducono". Secondo la nota pubblicitaria, tutto il sistema dei media, pubblicità compresa, contribuisce ad amplificare e a orientare l’immaginario collettivo, sia femminile che maschile. “Il sistema dei media diffonde modelli di ruolo, stili di vita, sistemi di valori e di desideri, e chiunque lavori con il sistema dei media è tenuto ad assumersi la responsabilità dei messaggi che manda in giro. Le immagini e le narrazioni sono potenti, suggestive, si radicano nella memoria. E dunque sì, anche la rappresentazione pubblicitaria che viene fatta delle donne ha il suo peso”. (Se la pubblicità offende la donna).

Chi afferma con una certa superficialità che Laura Boldrini dovrebbe occuparsi di altro invece che di partecipare a questi convegni, oltre ad ignorare i suoi interventi su altre materie, non tiene conto del fatto che la presidente della camera ha agito sulla base delle decisioni del parlamento che ha ratificato la Convenzione di Istanbul e ne ha rappresentato i contenuti, anche nella battuta «incriminata».

Un altro argomento contro la presidente della camera consiste nel ventilare un pericolo di censura. Ma Laura Boldrini nel suo discorso è stata chiara nell'escluderlo. Riferendosi al coinvolgimento dei media si è così espressa: «Un lavoro da fare insieme, nella diversità dei ruoli, senza nessuna forzatura e senza alcuna volontà censoria. La Convenzione lo dice con chiarezza: tra i valori da rispettare ci sono anche l'indipendenza e la libertà di espressione dei media. Quel che si propone, e che oggi qui prende il via, è una riflessione che metta a confronto punti di vista diversi, per capire se e come l'informazione possa aiutare la società italiana a maturare una maggiore consapevolezza dell'insopportabile gravità della violenza contro le donne; e se, per portare questo aiuto alla società, il sistema mediatico non debba anche fermarsi un momento a ragionare sui suoi stessi meccanismi di funzionamento, su certi "riflessi condizionati" della professione giornalistica». E la Convenzione da lei richiamata infatti dice: «Le Parti incoraggiano il settore privato, il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e i mass media, nel rispetto della loro indipendenza e libertà di espressione, a partecipare all’elaborazione e all’attuazione di politiche e alla definizione di linee guida e di norme di autoregolazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità».

Un terzo argomento accusa la presidente della camera di voler mettere in discussione la libera scelta delle donne. Le quali, si presume da questo punto di vista, desiderino essere servizievoli a casa con il marito e con i figli, in quanto il loro sarebbe un gesto d'amore. In verità, discutere l'univocità della rappresentazione mediatica non toglie nulla alle libere scelte individuali nella vita privata. Nè elimina in assoluto la donna che svolge mansioni domestiche, semplicemente aggiunge altre rappresentazioni. Vale quanto scrive il blog del Ricciorcono: «Io ho presente il piacere che si prova a compiere un atto completamente disinteressato nei confronti di una persona che amo. Sono convinta che anche molti uomini provano il medesimo piacere: diamo visibilità anche a loro. Così forse la smetteremo di fare confusione fra i vari significati della parola “servire” e potremmo godere tutti godere appieno della gioia di rendere felice la nostra famiglia».

L'argomento dell'amorevole scelta femminile della servitù è stato in particolare veicolato dalla lettera diffusa su molte bacheche di FB, titolata «Cara Boldrini, sono una mamma che serve a tavola e ne va fiera». La lettera è stata oggi pubblicata dal blog di Beppe Grillo. Più volte rilanciata dalla pagina FB di Beppe Grillo. Osserva Lorella Zanardo che il post così pubblicato, rispecchia evidentemente la linea del blog. Una linea che ci fa tornare all'immaginario benpensante degli anni Cinquanta. Una mamma che dichiara il piacere di servire il marito e i figli dopo una giornata di lavoro.



La fonte originale della lettera della «mamma che serve a tavola e ne va fiera» è firmata da Silvia Cirocchi. E' il direttore editoriale, ma sarebbe meglio dire la direttora, di Quelsi Quotidiano. Il suo nome compare anche in una scheda biografica di Elio Vito, già deputato e ministro del PDL: Nel 2007 ha sposato nella cappella di Montecitorio, a San Gregorio Nazianzeno, l’avvocato Silvia Cirocchi, nozze celebrate da monsignor Rino Fisichella. Sarebbe stato meglio scrivere avvocata. Dunque, a quanto pare, più che una mamma del popolo, un'avversaria politica di Laura Boldrini. La lettera è parodiata da un post esilarante di Sabrina Ancarola.

Grillo, non contento della sola lettera di una mamma italiana, ha pensato di provare a smentire le affermazioni di Boldrini con un video sugli spot all'estero, che sarebbero come quelli italiani. Mostra 4-5 spot stranieri, dove in verità le mamme si vedono mentre servono i figli, ma non i mariti. Due uomini compaiono a tavola per un istante, ma non sono serviti. Non è dichiarato di che periodo sono gli spot, ne quale sia il paese di provenienza, salvo riconoscere la lingua. Ciò detto, il punto non è la confutazione di un assoluto, fin troppo facile come di ogni assoluto. Quella di Boldrini era chiaramente una iperbole. Voleva dire che in Italia la donna è rappresentata quasi esclusivamente come domestica, all'estero invece è rappresentata un po' in tutti i modi, e quindi certo che tra tutti i modi è possibile trovare anche spot in cui fa la domestica. Peraltro, sarebbe impossibile trovare in Italia una pubblicità come questa.

Un noto aforisma di un uomo più filosofo, ma altrettanto misogino di Beppe Grillo, diceva che «Ogni buona idea attraversa tre fasi: dapprima viene derisa, poi viene duramente contestata, infine accettata come ovvia e risaputa». L'idea della opportunità di superare lo stereotipo della «mamma che serve a tavola» l'avremmo ormai immaginata nella terza fase, quella dell'ovvio e risaputo. Ma proprio in questi giorni abbiamo scoperto che, per una parte di questo paese, sta ancora faticosamente attraversando le prime due.





MASCHILE PLURALE
 
Pubblicità sessista: Comuni “censori”? di Alberto Leiss
 
Ormai succede sempre più spesso che nelle occasioni di dibattito sulla violenza contro le donne,organizzate intorno al 25 novembre – giornata nazionale sul drammatico tema – vengano invitati a parlare uomini. Non è una banalità.
Negli ultimi anni si è rotto quella sorta di invisibile recinto che teneva sostanzialmente nel silenzio lo scandalo e le dimensioni della violenza maschile contro le donne, e che soprattutto deresponsabilizzava quasi del tutto gli uomini.
Le donne subiscono le violenze, e da sempre sono loro a occuparsi delle conseguenze, ad assistere le vittime, a organizzarsi per reagire.
Oggi qualcosa comincia a cambiare. Nel 2006, quando alcuni uomini, me compreso, hanno scritto e diffuso un testo che affermava chiaramente: la violenza contro le donne ci riguarda, è un problema nostro, di noi maschi che la esercitiamo, evidentemente è stata colta una tendenza.
Le dimensioni e le modalità di queste violenze diventano sempre più insopportabili. Ne è prova l’eco mediatica pressoché quotidiana. Sui giornali e in tv alcuni commentatori di sesso maschile se ne accorgono. Nei dibattiti pubblici intervengono amministratori locali, responsabili dell’ordine pubblico, gestori dei servizi.
E’ accaduto, il 25 novembre, anche alla Spezia (e in moltissimi altri luoghi: vedi il sito www.maschileplurale.it), per iniziativa delle donne dell’Udi.
Mi è stato chiesto di intervenire, insieme a Barbara Mapelli. Hanno parlato, tra altri e altre, anche il sindaco della città e il questore.
E’ accaduto il 26 a Sanremo, dove una iniziativa mirata in particolare sull’uso volgare e offensivo del corpo femminile nei media e nella pubblicità è stata organizzata da un Coordinamento femminile della Provincia di Imperia che riunisce molte associazioni di donne.
C’erano Monica Lanfranco e Raffaella Rognoni (che ha parlato di un questionario diffuso nell’Imperiese tra centinaia di donne e uomini sulla percezione del fenomeno): il dibattito a cui sono stato invitato era coordinato da Daniela Cassini, consigliera comunale, e titolare di una libreria molto accogliente e invitante nel centro storico di Sanremo (“Ipazia”) dove si mangia anche
benissimo.
L’antica e ampia sala della Federazione Operaia Sanremese (sì, non c’è solo l’Ariston...) era completamente piena. Molte donne ma anche diversi uomini, e anche alcuni uomini molto molto giovani.
Non farò un resoconto di discussioni comunque assai interessanti. Cito solo due degli aspetti affrontati, proprio per continuare a discutere.Il primo è emerso alla Spezia.
Il sindaco Federici ha, inevitabilmente, descritto il quadro disastroso in cui versano le finanze degli enti locali, sottoposti ai “tagli” della legge finanziaria nazionale che si abbattono su Regioni, Province e Comuni come non è mai sinora accaduto.A farne le spese possono essere anche i finanziamenti – già troppo scarsi – indirizzati ai “centri antiviolenza” e in genere a quelle iniziative
– tutte gestite volontariamente da donne – che cercano quotidianamente di affrontare il problema. E’ giusto quindi tenere alta la pressione sul governo e sulle amministrazioni locali perché non si “taglino” risorse in questo campo di drammatica e costante emergenza.Mi chiedo però se – in tempi di gravi strettezze e di perduranti disuguaglianze – non ci si dovrebbe rivolgere anche all’”iniziativa privata” per raccogliere fondi per una causa tanto giusta.Magari interpellando la “categoria” dei maschi ricchi. In fondo devono in qualche modo rendere conto di due condizioni forse sospette: essere uomini e essere ricchi.Scherzo (un po’). Però mi ci ha fatto pensare la frase di un amico
spezzino, sentito prima del dibattito: “Caro, non ce la faccio a venire, però sono d’accordo, fai benissimo. Posso fare qualcosa anch’io? Se serve sono pronto a sottoscrivere una somma...”. Già, perché no? La seconda cosa è più complessa. Ho appreso – la cosa mi era sin qui sfuggita – che da qualche tempo l’Udi e altri gruppi di donne chiedono alle amministrazioni comunali di vietare l’affissione
nei propri spazi di manifesti “sessisti”, con immagini che offendono la dignità delle donne. Ho letto che alcuni Comuni già stanno approvando delibere di questo tipo – per esempio a Genova – prevedendo l’istituzione di apposite commissioni di “esperti” per vagliare appunto il “sessismo” delle produzioni pubblicitarie.Io sono molto, molto perplesso. E l’ho detto a Sanremo suscitando
una discussione assai vivace. Capisco benissimo, naturalmente, la reazione di sdegno e di insopportazione che certe immagini e certe frasi provocano nelle donne. E anch’io – e penso con me molti uomini – non sopporto tanta
volgarità e anche spesso un linguaggio apertamente violento. A uscirne oltraggiato – a mio avviso – è il corpo femminile, ma anche un desiderio maschile ridotto alle sue manifestazioni più triviali (stavo per dire bestiali, ma che c’entrano le povere bestie?).Però mi chiedo – e chiedo: siamo proprio sicuri, e sicure, che la via della repressione, della “censura”, sia quella giusta da seguire, per di più moltiplicando questa funzione in ogni italico Comune?
A Sanremo abbiamo visto un bellissimo video, intitolato “Se questa è una donna”, realizzato da giovani autrici e forse anche da un autore, con una critica molto acuta di queste immagini e l’evocazione di una sacrosanta rivolta.La realizzazione e la diffusione, sul web, su molti media, del documentario “Il corpo delle donne” di Lorella Zanardo – che ovviamente è stato molto citato – ha
attivato una discussione e una reazione molto larga, soprattutto nelle scuole e tra ragazze e ragazzi, con la produzione di nuovi documenti.
Perché non chiedere alle amministrazioni locali piuttosto di “pubblicizzare” – con tutti i mezzi a disposizione: affissioni, siti, spazi sui media ecc. – questo tipo di produzioni critiche?
Perché non lanciare, piuttosto, campagne di boicottaggio delle aziende che ricorrono a messaggi pubblicitari manifestamente sessisti?
Io temo che la soluzione: “vietateli, non voglio più vederli”, possa nascondere anche una negativa rimozione.
Quei manifesti, quegli spettacoli tv, parlano degli esiti di miseria di una sessualità maschile che deve evidentemente sapersi ridefinire in un mondo nel quale le donne non accettano più, di fatto,l’antica indiscussa supremazia maschile.Parlano anche del fatto che molte donne stanno al gioco
della mercificazione del proprio corpo.
Sono cose che ci riguardano tutti e tutte: troppo comodo eliminarle dalla nostra vista grazie a una procedura burocratica.
Spesso il confine tra bellezza, erotismo, volgarità, pornografia, seduzione, violenza è molto sottile.Su questo limite così radicale per le nostre esistenze, corporee e simboliche, c’è – per così dire – un’ ardua battaglia da combattere, dentro di noi, con altri e altre, tra donne, tra uomini, tra donne e uomini, soprattutto oggi in cui si è aperto un grande scandalo.E gli scandali sono opportuni, per cambiare le cose.Ma cambiarle sul serio.




Annamaria Arlotta
La pubblicità sessista offende uomini e donne.
 Ricorrere allo stimolo erotico affiancando un prodotto da vendere a una bella donna in atteggiamento compiacente è operazione svilente nei confronti di tutti, perché riduce relazioni, affetti e legami tra i sessi, complessi ed arricchenti, a semplice desiderio di conquista per soddisfare un impulso basilare, che viene poi trasferito sul prodotto pubblicizzato.
Il Governo, l’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, le agenzie di comunicazione e le imprese stesse devono farsi carico di porre fine a questo fenomeno degradante che riduce a “macchiette sessuali” uomini e donne, per indurre ad acquistare un prodotto o un servizio come sostituto del
desiderio di possesso di un’altra persona.
I media bombardano adulti, adolescenti e bambini con messaggi pubblicitari che della donna esaltano gioventù, magrezza, bellezza e sex appeal. Unica alternativa, le abilità di casalinga e madre.
 Gli stereotipi rafforzano i valori negativi e antiquati e condizionano la visione che i bambini hanno del mondo in cui vivono, rendendo più difficile il progresso.
Il Codice di autodisciplina pubblicitaria stabilisce che questa deve: “rispettare la dignità della persona in tutte le sue forme ed espressioni”.
 Oltre a contraddire questo principio la pubblicità sessista presenta ai bambini e ai ragazzi una visione cruda, univoca e distorta delle relazioni tra i generi.
Si può intuire un legame tra la sollecitazione al possesso della donna e la violenza a sfondo sessuale.
 Il Presidente Giorgio Napolitano ha scritto ad aprile scorso: “È evidente che la
comunicazione di un’immagine della donna che risponda a funzioni ornamentali o che venga offerta come bene di consumo offende profondamente la dignità delle donne italiane. Non solo: questo stile di comunicazione nei media, nelle pubblicità, nel dibattito pubblico può offrire un contesto favorevole dove attecchiscono molestie sessuali, verbali e fisiche, se non veri e propri atti di violenza anche da parte di giovanissimi.”
Ico Gasparri, da vent’anni impegnato nella causa, mette in guardia sul pericolo che il genere femminile stesso sia talmente assuefatto a questo tipo di messaggio da non coglierne più la negatività, affermando: “È davvero sconsolante dover convincere una donna che una pubblicità di
un computer o di una bibita con una ragazza a gambe aperte, la lingua fuori dalle labbra rosse socchiuse, lo sguardo maliardo, la testa reclinata e i seni ben in vista sia una porcheria, ma purtroppo mi capita sempre più spesso!”
A seguito dei recenti scandali che hanno coinvolto le escort in relazioni a fini di lucro con personaggi influenti, una sparuta minoranza di donne che si è offerta come merce domina le prime pagine dei quotidiani. Affiancare la pubblicità sessista a notizie del genere non può che rafforzare nell’immaginario collettivo i pregiudizi e gli stereotipi, e fare torto alla stragrande maggioranza delle italiane, studentesse, casalinghe, lavoratrici.
Non dobbiamo sottovalutare il potere dei messaggi più o meno subliminali che ci bombardano in modo ossessivo ogni giorno, che sicuramente influenzano il nostro atteggiamento mentale nei rapporti tra i sessi. Veniamo spinti a identificare il prodotto reclamizzato con un corp
Annamaria Arlottao femminile oggetto di desiderio di possesso e riduciamo, spesso inconsciamente, la donna stessa a merce.
 

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